martedì 19 gennaio 2016
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«Questo grave episodio ci deve spingere ad aumentare la nostra attenzione alle difficoltà dei ragazzi, a non sottovalutare mai ciò che accade loro e a impostare le relazioni mettendo al centro il rispetto e la valorizzazione dell’altro». Colpita dal caso di Pordenone, la psicologa dell’Università Cattolica, Simona Caravita, passa subito alla terapia. E chiama in causa direttamente gli adulti: «Attenzione a pensare che le cose che accadono tra ragazzi siano tutte “ragazzate” e che, in fin dei conti, devono cavarsela da soli. È molto pericoloso». Come è possibile che nessuno, a casa e a scuola, si fosse accorto che questa ragazzina stava tanto male da meditare il suicidio? Credo che il senso di vergogna abbia giocato un ruolo importante, spingendola a non confidarsi con nessuno. Non è raro che una vittima di bullismo, anche giovanissima, come in questo caso, si chiuda a riccio per la vergogna e per timore che l’intervento dell’adulto possa aggravare la situazione. Che cosa può fare, allora, un genitore, un educatore, per aiutare un ragazzo in difficoltà che non confida il proprio malessere? Anche se non parlano, i ragazzi mandano segnali. Bisogna essere pronti a captarli. Se, per esempio, i voti peggiorano all’improvviso e il ragazzo è sempre triste e chiuso, è il caso di intervenire, cercando di stabilire un dialogo e rassicurarlo. Come, invece, far capire agli adolescenti che non tutto è uno scherzo e che non si può scherzare su tutto? Quando li incontro, ai ragazzi dico questo: se ciò che tu pensi sia uno scherzo fa soffrire chi ne è bersaglio, allora non è accettabile. Non è più uno scherzo. Se il mio comportamento fa star male l’altro non lo devo più fare. Per questo serve, allora, un’azione educativa a livello sociale che riporti in primo piano il valore del rispetto. Gli adolescenti, i ragazzi vanno educati al rispetto reciproco.
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