mercoledì 30 novembre 2022
Mangiacavalli, presidente della Fnopi: occorre attuare le lauree magistrali di ambito clinico
Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi)

Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi)

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«Ormai c’è una questione infermieristica. La nostra professione non può più accontentarsi di soluzioni parziali: occorre affrontare i nodi strutturali per risolvere le criticità che penalizzano gli infermieri. Anche perché i giovani oggi stentano a dedicarsi alle professioni infermieristiche». Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi) auspica il coraggio di svecchiare abitudini consolidate e riformare alcune normative “datate”: «Già prima delle elezioni abbiamo presentato le nostre necessità alle forze politiche. Ora vorremmo poter discutere dei percorsi che il governo ritiene fattibili e percorribili».

Che cosa lamentano gli infermieri?

Il personale è insufficiente da tempo. Si stima che manchino circa 70mila professionisti: parliamo ormai di “questione infermieristica” con l’auspicio che venga messa in tutte le agende politiche e istituzionali. E non ci possiamo più accontentare di soluzioni semplicistiche: non è l’abolizione del numero chiuso ai corsi di laurea la soluzione per avere più infermieri. Lo dimostra anche il fatto che negli ultimi anni, grazie agli sforzi dei ministeri della Salute e dell’Università e delle Regioni, sono stati aumentati di circa 2mila i posti messi a bando per la laurea in Infermieristica, ma non sono stati coperti.

Quali sono le cause?

È evidente che in Italia la professione è diventata poco attrattiva per i giovani. L’attuale organizzazione fatica a valorizzare persone e talenti: non è esigibile uno sviluppo di carriera in ambito clinico-assistenziale (ma solo in ambito organizzativo), non vengono realizzati percorsi formativi specialistici, né c’è un adeguato riconoscimento economico per un impegno lavorativo che si svolge – a differenza di altre professioni sanitarie – con turni sulle 24 ore al giorno e su 7 giorni alla settimana.

Esiste anche una questione “motivazionale”?

Tutte le professioni sanitarie hanno questo problema. Ne vediamo conferma nel fatto che circa 20mila nostri colleghi nel corso degli anni si sono trasferiti all’estero, e ogni anno li seguono 250-300 colleghi. Migrano verso Stati dove ci sono maggiori speranze di sviluppo di carriera, legate alla possibilità di specializzarsi: soprattutto Regno Unito, Norvegia, Finlandia, Svezia. E non torna nessuno, perché dove vivono c’è una valorizzazione sia giuridica sia economica del loro lavoro, dentro modelli organizzativi che hanno una caratteristica: minore densità medica, e maggior spazio per lo sviluppo di competenze avanzate per gli infermieri.

La solita contrapposizione medici-infermieri? Qualche sindacato chiede la prescrizione infermieristica: è possibile?

Va chiarito che si tratta di prescrizione di presidi e ausili. Quando 5 anni fa abbiamo portato il tema al nostro congresso, abbiamo trovato le barricate. Da allora abbiamo avviato percorsi di confronto con Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo) e stiamo facendo un lavoro di sinergia, anche di tipo culturale. Presidi e ausili sono funzionali a un processo di assistenza infermieristica., che già oggi gli infermieri usano con competenze specialistiche, perché sono gli infermieri enterostomisti o quelli esperti di incontinenza (abbiamo società infermieristiche specifiche) che indicano che cosa occorre al medico, che compila la ricetta. Ma è un passaggio che si potrebbe superare, anche grazie alle lauree magistrali di ambito clinico, che darebbero un’abilitazione di tipo specialistico.

A che cosa si riferisce?

Oggi gli infermieri entrano in un unico “calderone” che non consente di fare percorsi di valorizzazione. Occorre attuare le lauree magistrali di ambito clinico che, pur previste da una norma del 1994, non sono state realizzate. Chi vuole studiare con una laurea magistrale di tre anni più due deve potersi specializzare in aree cliniche: da neurologia e decadimento cognitivo alle patologie croniche nefrologiche, dall’area chirurgica a quella della salute mentale o a quella neonatale-pediatrica, fino alle cure territoriali e l’infermieristica di famiglia. Ovvio che poi vada modificato il sistema di reclutamento, che riconosca questa formazione specialistica. Mentre oggi è ancora fermo alle normative stabilite a metà degli anni Novanta, che prevedono, per esempio, l’esclusività di impiego per chi è assunto nella sanità pubblica, senza la possibilità di esercitare la libera professione.

A che punto siamo con l’infermiere di famiglia?

Sono stati definiti i primi numeri: 20mila secondo il Decreto ministeriale 77, ma i primi sono stati previsti dal Decreto Rilancio e le aziende sanitarie hanno cominciato ad assumerli. Tuttavia sono pochi: secondo i dati della Ragioneria generale dello Stato circa 3.500 sui 9.600 previsti. Però si sconta il fatto che gli infermieri non ci sono.

E quindi le Case di comunità?

Se le interpretiamo come unico baluardo presente sul territorio, non funzioneranno, perché una Casa ogni 40-50mila abitanti può andare bene in città, ma non nelle zone rurali o montane del nostro Paese. La Casa di comunità deve essere un la cabina di regia di una rete da costruire, di cui fanno parte: infermieri di famiglia, medici di medicina generale, pediatri, ambulatori specialistici, farmacie, e la parte socioassistenziale residenziale e semiresidenziale. L’importante è che la Casa di comunità sia collegata con tutto quello che è fuori.

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