giovedì 4 agosto 2022
Il leader radicale si è autodenunciato dopo aver accompagnato Elena a morire in Svizzera. Parlano le associazioni che assistono le persone in stato terminale: la presenza e la cura aiutano
Cure peri malati terminali

Cure peri malati terminali - Archivio Siciliani

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Dopo cinque anni Marco Cappato ieri è tornato dai carabinieri, nel centro storico di Milano, per autodenunciare di avere accompagnato a morire in Svizzera, con il suicidio assistito, la signora Elena, malata terminale di cancro. La caserma è la stessa in cui, nel febbraio 2017, il tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni si era presentato dopo aver accompagnato in una clinica svizzera Fabiano Antoniani, noto come dj Fabo, paralizzato e cieco dopo un grave incidente, perché ponesse fine alle sue sofferenze. Da allora qualcosa è cambiato in materia di fine vita: Cappato rischia fino a 12 anni di carcere per l’accusa di aiuto al suicidio perché la sentenza della Corte costituzionale, che ha depenalizzato in parte il suicidio assistito in Italia, non contempla il caso di Elena. Elena, 69enne residente a Spinea, in Veneto, aveva un cancro ai polmoni in stadio avanzato, ma non era sottoposta a trattamenti di sostegno vitale, come nei casi di “dj Fabo” o di Federico Carboni, il primo paziente che ha avuto accesso al suicidio assistito in Italia.

Seduta in poltrona nella sua casa di Modena, davanti al telegiornale, Claudia ha pianto martedì sera. S’è riconosciuta nel volto devastato di Elena, la signora di 69 anni che ha scelto di morire in Svizzera a causa della diagnosi infausta di tumore al polmone che aveva ricevuto in chissà quale ospedale del Veneto, in chissà quale momento di questi ultimi, complicatissimi anni di Covid, in cui l’attenzione per tutte le altre malattie – a cominciare proprio dai tumori – è venuta meno (coi danni gravissimi in termini di diagnosi che le associazioni e gli esperti hanno più volte documentato).

Anche Claudia è malata, al pancreas. «So cosa vuol dire la strada per l’inferno – ripete ai volontari che ogni giorno si presentano a casa per supportarla –, ma la percorro». Spesso basta questa presenza, quella di medici e volontari a domicilio, per affrontare un cammino difficilissimo come quello di un cancro terminale, «spesso le famiglie – spiega la presidente di Fondazione Ant Raffaella Pannuti – ci dicono che quando arriviamo vedono i propri cari sorridere».

Ant è un ospedale senza muri che ogni giorno cura gratuitamente a domicilio 3mila malati di tumore in 11 regioni italiane (dall’Emilia-Romagna alla Lombardia, dal Veneto al Friuli-Venezia Giulia, e poi in Toscana, Lazio, Marche, Campania, Basilicata, Puglia, Umbria). Con il suo fondatore, l’oncologo Franco Pannuti, è stata tra i pionieri dell’assistenza sanitaria domiciliare e anche in questi due anni è sempre stata in prima fila, non in corsia ma nelle case delle persone: «La solitudine è la prima montagna che dobbiamo scalare e la condizione che accomuna tutti questi pazienti, coi loro familiari – continua Pannuti –. Hanno paura di non farcela, e hanno paura del dolore».

Le armi in questa battaglia in cui la morte è data drammaticamente per certa, alla fine, si chiamano cure palliative e queste, sì, sono un diritto: in Italia le ha previste dal 2010 in avanti una legge tra le più innovative di tutte. Che però deve fare i conti con un sistema sanitario in crisi perenne: «Oggi su circa mezzo milione di persone che nel nostro Paese dovrebbero accedervi per vedersi assicurata una qualità della vita il più possibile alta nell’ultima parte della propria malattia, sono riservate appena al 25% del totale. E a macchia di leopardo: in alcune Regioni sì, in altre no». Il problema sono le risorse, su tutti quelle umane: «Scontiamo la carenza di medici nel pubblico, e nei Pronto soccorso, figuriamoci nel’assistenza domiciliare convenzionata». E le scuole di specializzazione in cure palliative sono state istituite appena quest’anno, «andrà bene se le vedremo decollare il prossimo». Risultato: il diritto all’assistenza sancito placidamente per legge non può essere applicato, mentre quello ad anticipare la propria morte viene inseguito e reclamato come una chimera. «Forse perché togliere 60 o 90 giorni di vita a una persona sembra una soluzione più semplice... ».

«Si dimentica per altro – aggiunge l’oncologo Alberto Scanni, primario emerito dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano e già direttore generale dell’Istituto dei tumori – che esiste anche il diritto alla sedazione profonda nella fase terminale: questa non è eutanasia, ma ci permette di governare il dolore e offrire una terminalità serena. Abbandonare il malato non è accettabile». Anche per Scanni il sistema delle cure palliative andrebbe implementato: «Hospice e assistenza domiciliare ai malati terminali non sono messi a sistema, funzionano soltanto grazie alla buona volontà dei singoli operatori. La medicina territoriale, già afflitta da numerosi problemi, mette la terminalità ai margini».

E nella solitudine e nell’assenza di aiuto i drammi come quelli di Elena possono esplodere: «Guardandola e sentendola parlare, con un filo di voce, ho provato un forte senso di sconforto – spiega Vittorio Franciosi, responsabile del Programma interaziendale di oncologia dell’Azienda ospedaliera universitaria di Parma e presidente del Centro di Bioetica Luigi Migone –. La immagino nel suo lungo viaggio, separata dalle persone che amava e che l’amavano, accanto a cui invece avrebbe potuto avere un percorso assolutamente dignitoso di cure fino al suo ultimo giorno di vita. Questo infatti garantiscono le cure palliative, che sono a risposta più importante che possiamo offrire ai malati terminali. E questo viene completamente bypassato in questa storia, con questo nuovo intervento di Cappato: il fatto che ci sia un percorso di cure, che ci sia una risposta alla sofferenza. Non ideologie, ma reali soluzioni che noi medici possiamo fornire alle persone che soffrono e ai loro familiare».

Le cure, e anche la ricerca. Perché il cancro non è necessariamente la fine, come ricorda da tutt’altro punto di vista l’Airc, impegnata con oltre 5mila scienziati nell’offrire risposte terapeutiche valide alla sopravvivenza. L’Italia, anche questo andrebbe ricordato, è al vertice in Europa per numero di guarigioni: oggi 3,6 milioni di cittadini hanno superato una diagnosi di cancro, con un incremento del 36% rispetto a 10 anni fa e in molti casi sono tornati ad avere un’aspettativa di vita paragonabile a quella di chi non si è mai ammalato. Se la diagnosi di un tumore maligno fosse la fine, anche lo sforzo della ricerca non avrebbe più senso.

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