«C’è un uso distorto dell’amministratore di sostegno, ma occorre chiarire che in questo caso non siamo di fronte a una dichiarazione anticipata di trattamento, bensì a un dissenso informato». Alberto Gambino, docente di Diritto privato all’Università Europea di Roma, trova molto delicato il tema della signora di Treviso che non vuole essere sottoposta a trasfusioni e tracheotomia: «Non può essere ritenuto un rifiuto in astratto per il futuro, perché la signora è già malata».
La nomina del marito quale amministratore di sostegno per rifiutare le cure è una risposta adeguata alle necessità della signora malata?In realtà se è sempre legittimo che un cittadino rifiuti cure che percepisce come invasive, questo non è valido in caso di urgenza e in stato di incapacità di intendere e volere, quando nella nostra legislazione prevale la tutela della vita. Ma il punto critico riguarda l’amministratore di sostegno: si usa un terzo come tutore per trasformare il diritto alla cura, e a rifiutarla, in un potere in realtà di “determinazione” da parte di un altro soggetto. Anche perché nessuno potrà dire che in un evento futuro il paziente avrebbe mantenuto intatta la volontà di rifiutare una cura. C’è sempre il rischio che l’amministratore si sostituisca alla volontà del paziente. E poi si continua a stravolgere una figura nata per altri scopi.
Cosa vuol dire?Che la legge sull’amministratore di sostegno era stata pensata allo scopo – come dice la parola stessa – di tutelare persone impossibilitate a proteggere autonomamente la propria salute e prive, in parte o totalmente, di autonomia. In questo caso – ma non è il primo – si cerca di utilizzarlo per scopi diversi, lontani da quello che era l’intento del legislatore. Ma non credo peraltro che la vicenda di Treviso riguardi molto il tema delle dichiarazioni anticipate di trattamento, oggetto del noto disegno di legge.
Perché?Il tema è certamente delicato, ma il caso non mi sembra quello di una persona che rifiuta astrattamente oggi per domani di essere sottoposto a una cura salvavita nel caso in cui perda coscienza, bensì una sorta di dissenso informato. Infatti le dichiarazioni anticipate di trattamento hanno la particolarità di indicare una volontà rispetto a una situazione non ancora in essere. Viceversa la signora è già malata adesso, è quindi stata informata sull’evoluzione della sua malattia, ne avrà discusso con il suo medico. Avrà anche potuto valutare gli effetti delle terapie possibili. Si tratta quindi di una decisione «ora per ora», visto che una crisi pare poter insorgere in qualunque momento (ed è già capitata). Mi pare una situazione diversa da quella delle dichiarazioni anticipate di trattamento. Anzi, direi che siamo di fronte a un ulteriore motivo per ritenere sbagliato il ricorso all’amministratore di sostegno da parte del giudice tutelare.
Prevale una posizione di tipo ideologico in queste decisioni che si appellano al principio della libertà di cura (e non cura)? Sembra di sì, sembra che si voglia poter stabilire che, in uno stato di piena salute, non si vogliono interventi sanitari in un eventuale momento di malattia. Questo non mi pare ammissibile alla luce del nostro ordinamento. Che in realtà offre già i principi (si può rifiutare una cura non desiderata) che eviterebbero contenziosi. Talvolta la creatività del giudice risulta essere fuorviante e allontanare da soluzioni equilibrate e già presenti nel nostro ordinamento. In questo protagonismo della giurisprudenza vedo un tentativo di proclamare il principio di autodeterminazione del paziente, ma molte situazioni si risolverebbero in modo molto più delicato applicando le regole che già ci sono: probabilmente di fronte a una vicenda del genere il medico che avesse seguito le indicazioni della paziente non avrebbe subito contestazioni.