
L'abate di San Miniato al Monte, dom Bernardo Gianni
Il mondo è finito in un labirinto, ma rassegnarsi alla legge del più forte non avrebbe senso. «Davanti a un lessico smodato di guerra, possiamo rispolverare come cristiani un linguaggio di pace e recuperare un vocabolario alternativo» dice dom Bernardo Gianni, abate di San Miniato al Monte, che in questi anni impazziti ha provato a tenere insieme la contemplazione e l’azione, la preghiera e la partecipazione. La linea tracciata dal magistero della Chiesa e dalla lezione degli ultimi Papi è d’ispirazione, ma il primo passo tocca alle persone e alle comunità. «C’è un problema culturale alla base di quanto sta accadendo – riflette dom Bernardo, monaco benedettino che si ispira alla lezione di pace di Giorgio La Pira, sindaco “santo” di Firenze -. Ormai prima si bombarda e poi si negozia. Si dichiara guerra senza spiegarne le ragioni e poi si proclamano armistizi e si annunciano tregue su tregue».
Il riarmo sembra ineluttabile, padre Bernardo, e il motto latino “si vis pacem, para bellum”, se vuoi la pace, prepara la guerra, è tornato a essere la cornice di tutti i discorsi istituzionali. Siamo dentro un destino segnato?
Si è creato un clima di assuefazione e ineluttabilità della violenza, è vero. La situazione si è deteriorata da quando anche l’Europa ha iniziato a parlare di armi. Ma le vere vittime sono i più deboli, non i governi. La dignità di un popolo non può essere affidata a chi imbraccia un fucile. C’è un interrogativo che dovremmo porci: verso quale futuro stiamo andando? Torniamo a chiederci chi è davvero l’uomo oggi e dove sta la sua dignità e libertà.
Leone XIV ha fatto riferimento alle “fake news”, che spesso giustificano l’inizio delle guerre e portano alla morte di tanti innocenti.
Quello del Papa è stato un intervento di grande ispirazione e speranza per tutti noi, con un richiamo tipicamente agostiniano alla veritas, dove cristologia e visione della storia si uniscono. Il tema della distorsione della verità è una preoccupazione radicata nel magistero degli ultimi Papi e il nuovo pontificato si colloca in perfetta continuità con la lezione dottrinale di Benedetto XVI e l’eredità pastorale di Francesco. Nel dilagare di ogni genere di notizia dentro la nostra vita iperconnessa, il nostro cuore appare come sempre più esposto al rischio della manipolazione: per questo siamo sempre più vulnerabili. Dietro allo schermo di un computer o con in mano un cellulare diventiamo potenziali aggressori e facili araldi di presunte verità. Alcuni assumono addirittura il ruolo di sicari.
Questa settimana, mentre il presidente della Nato, Mark Rutte, diceva testualmente che «dobbiamo essere pronti a soffrire e morire insieme», il mondo associativo cattolico in Italia lanciava l’idea di un ministero della pace. Che ne pensa?
È importante recuperare il nostro vocabolario, che è alternativo rispetto a quello del mondo. Non è un’opzione, ma un imperativo categorico che scaturisce direttamente dal Vangelo. Chi di spada ferisce, di spada perisce. È l’immagine di Gesù che riattacca l’orecchio a chi l’ha perso, affinché il nostro cuore torni a essere raggiunto da parole che si possano ascoltare. Parole di pace e di giustizia per tutti i popoli.
L’invito a non rassegnarsi alla deriva dell’odio deve partire dalle singole persone o dalle comunità?
Prassi comunitaria e prassi personale, secondo me, non vanno mai scisse. C’è un’azione di desistenza che riguarda tutti e ciascuno e che ci spinge a non accodarci alla retorica bellica prevalente. Per chi è credente, questo monito deve farsi poi testimonianza fraterna e preghiera, una sorta di gemito in cui manifestare una tensione orante per l’umanità. Manteniamo quella visione missionaria della Chiesa, come popolo convocato da Dio anche in questo tornante difficile della storia.