domenica 27 marzo 2016
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Domanda semplice semplice: può un tribunale dei minori 'ostacolare' l’esecuzione di due sentenze, una della Corte d’appello e una della Cassazione che vanno entrambe nella stessa direzione? Sembrerebbe impossibile, ma è così. Dal 2013 una madre siciliana, al termine di un’odissea lunga sette anni in cui i giudici hanno avuto parte preponderante – più nel male che nel bene – non riesce più ad avere rapporti con i figli. Merito delle ambiguità della legge sull’affido condiviso che non offre garanzie sufficienti perché entrambi i genitori, nonostante la separazione, possono continuare a svolgere il loro ruolo. Eppure la sentenza della Corte d’appello di Catania non lascia spazio ai dubbi. I due figli vanno riassegnati alla madre in via esclusiva. Non solo. Nei confronti del padre si esprime «un divieto provvisorio di contatti» e l’uomo viene condannato a versare un assegno mensile di 800 euro per il mantenimento dei figli minori. Il pronunciamento è dell’11 giugno 2010. Il padre, un affermato professionista che lavora nel settore della sanità, rifiuta però la decisione dei giudici di merito e si rivolge alla Cassazione. La decisione definitiva arriva il 12 febbraio 2013. Ricorso rigettato e piena conferma di quanto deciso dalla Corte d’appello. I sette motivi del ricorso vengono dichiarati infondati uno dopo l’altro. Bene, si dirà, vicenda chiusa e figli riassegnati alla madre? Niente affatto. A oltre tre anni dalla Suprema Corte la donna attende ancora che la sentenza diventi esecutiva. Nel frattempo servizi sociali, perizie e controperizie, ricorsi e controricorsi, hanno dilatato i tempi in modo inaccettabile. Inoltre, la figlia più grande, diventata maggio- renne, è uscita dall’ambito del Tribunale per i minorenni. E tutto si è di nuovo bloccato. Una vicenda limite, si dirà. Una conflittualità tanto aggrovigliata, quella tra questi due coniugi catanesi, da non poter rappresentare un esempio significato. Purtroppo è vero il contrario. Le maglie della legge 54 sono così larghe da permettere la replica di situazioni simili, in cui la promessa del meglio si trasforma in un peggio così oscuro da non permettere di cogliere nessuna via di uscita. E, a fare le spese, come al solito, i figli. Eppure nel 2006, quando Marco e Assunta (nomi di fantasia) decidono di separarsi, la situazione sembra delineata con chiarezza. Affido condiviso e i due ragazzi, che all’epoca hanno 4 e 9 anni, 'collocati' presso la madre. Ma il padre, contrariamente a quanto deciso dal giudice, modifica la struttura della villetta familiare e ne ricava un appartamento indipendente in cui va ad abitare con i figli. Il tribunale, invece di sanzionare una forzatura che non rispetta la sentenza, rimane a guardare. A cambiare la situazione non servono neppure denunce e ricorsi. In breve i rapporti si trasformano in un inferno per tutti. E nel 2007 la madre, dopo una perizia tecnica condotta in modo molto dubbio, perde anche la qualifica di genitore collocatario. È l’inizio di un percorso ad ostacoli che la porterà progressivamente ad essere esclusa dalla vita dei suoi figli. Una situazione che è fonte di sofferenza per tutti, ma soprattutto per la donna, ormai emarginata dalla vita familiare. Fino a che, sulla base di una relazione del Servizio di psichiatria della Asl di Siracusa, si arriva al giudizio di appello dove tutto viene ribaltato. La decisione degli specialisti è richiamata nella sentenza del- la Cassazione. I medici «hanno ritenuto che il comportamento negativo dei figli verso la madre fosse stato provocato dalla condotta ostruzionistica del marito che aveva ostacolato gli incontri e ingiustificatamente screditato la figura della madre nei loro confronti, in tal modo danneggiandone l’equilibrio psichico». Una vera e propria alienazione parentale, secondo la Suprema Corte. Ma dopo tre anni, come detto, nulla è cambiato. Se è reale per i due ragazzi il rischio riconosciuto dalla Cassazione, come è possibile che la legge non offra la possibilità di un intervento risolutore? Luciano Moia
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