sabato 26 novembre 2022
L'allarme sui braccianti sfruttati: nei campi lavorano sempre più irregolari e sempre più indigenti
Nelle terre dei caporali. «Poche le denunce, tanti i casi»

Ansa

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La piaga del caporalato continua a mietere vittime per il caldo e la fatica. Vite spezzate da condizioni di lavoro disumane. Come quella di Abdullah Mohammed, bracciante agricolo di 47 anni, deceduto in un campo di pomodori sulla Porto Cesareo-Leverano in località Pittuini-Ascanio, nel luglio del 2015. Per la sua morte la Corte d’assise di Lecce ha inflitto 29 anni di prigione: 14 anni e mezzo a testa a Giuseppe Mariano, 83 anni, residente a Porto Cesareo, titolare dell’azienda agricola in cui senza contratto e senza mai essere stato sottoposto ad una visita medica lavorava la vittima e a Mohamed Elsalih, 42 anni, sudanese, che aveva il compito di reclutare gli immigrati da sfruttare per pochi soldi nei campi del Salento. Controlli dei carabinieri di Treviso hanno, invece, portato alla luce una situazione di sfruttamento del lavoro e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina in quattro laboratori calzaturieri del territorio. Quattro persone sono state arrestate nella flagranza dei reati di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, aggravato, continuato e in concorso, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, aggravato, continuato e in concorso. Si tratta di un 48enne, una 46enne, un 45enne e un 51enne, tutti di origini cinesi, bloccati mentre stavano svolgendo attività di sorveglianza e controllo nei confronti di due lavoratori di origini pakistane, assunti con contratto “part-time”, analogamente ad un altro connazionale identificato sul posto, ma al momento non impegnato in mansioni lavorative, tutti regolarmente presenti sul territorio nazionale. «Lo sfruttamento dei lavoratori è una piaga che va combattuta», ha dichiarato il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia.

Sulla frontiera del lavoro i migranti in Italia sono sfruttati, vittime di caporalato, precari. Soprattutto le donne. Il primo ostacolo è paradossalmente la legge sull'immigrazione ormai vecchia di vent’anni.

«Non permette l’ingresso per motivi di lavoro e non consente l’incontro tra domanda e offerta - puntualizza Edoardo Patriarca, portavoce del festival della Migrazione, che da Modena si è spostato ieri a Carpi - e gli stessi imprenditori lamentano la carenza di manodopera. Oggi il lavoro dei migranti è per definizione lavoro povero». Visto da vicino il mercato del lavoro emiliano è paradigmatico delle trasformazioni avvenute a livello nazionale. «Un osservatorio importante - spiega Laura Zanfrini, docente della Cattolica e sociologa delle migrazioni - in senso multiculturale, multietnico e multireligioso».

Per Zanfrini, il primo sfruttamento è quello nel lavoro domestico. «La presenza di centinaia di migliaia di donne (le cosiddette badanti sono 1,6 milioni) ha consentito l’introduzione di un welfare parallelo. Ma sei casi su dieci sono irregolari». Altra discriminazione è sostenere che gli immigrati fanno i lavori che gli italiani non vogliono più svolgere, «tipico di una società castale».

Il problema sta invece nell’outsourcing, nei subappalti, nel falso lavoro autonomo, nella flessibilità dove si annidano lo sfruttamento e la prevaricazione. Nel sistema che produce scarti senza valorizzare le competenze. «I migranti si concentrano nei mestieri più poveri e prendono il 35% in meno, solo il 20% ha un lavoro adeguato al titolo di studio e in particolare le lavoratrici domestiche svolgono orari incompatibili con la vita familiare. E per donne provenienti da Pakistan e Bangladesh il tasso di inattività è in crescita. Un terzo delle famiglie immigrate è in povertà assoluta e un altro terzo in povertà relativa. L'indigenza cresce soprattutto per loro in Italia e la presenza di bambini impoverisce la metà dei nuclei , anche a causa della “pandemia sociale” che le ha maggiormente colpite. Era inevitabile che accadesse in famiglie monoreddito e con lavoro mal pagato. Gli abbandoni scolastici colpiscono il 13% degli studenti italiani, tasso che sale al 30% per gli studenti senza cittadinanza italiana. Se un quinto dei giovani italiani non studia né lavora, la quota sale al 34% per gli stranieri».

Lo sfruttamento apre le porte alla criminalità. Carpi ha appena aderito al tavolo provinciale prefettizio per la prevenzione dello sfruttamento, come ha ricordato il sindaco Alberto Belleli, « per fare luce sugli spazi di penombra che non riguardano solo l’agricoltura, ma anche altri settori» . A livello nazionale una legge punisce il caporalato. Alcuni tratti li ripercorre l'avvocatessa di origine albanese Danaida Delaj, arrivata nel 2002 per studiare giurisprudenza eppure non ancora cittadina. Testimone di tanti casi di sfruttamento, oggi vede il fenomeno estendersi e diventare meno riconoscibile. «Quando lo sfruttamento lavorativo colpisce le donne, esso è impregnato di abusi e violenze. Il caporalato è in aumento dopo la crisi. Dal 2015, la morte per fatica della bracciante Paola Clemente, che veniva pagata 3 euro l'ora, ha fatto capire che lo sfruttamento colpisce tutti. PEr questo venne approvata all'unanimità la legge anti-caporalato». I casi sono 400mila, quelli denunciati pochi, ma in crescita. A livello nazionale, infatti, solo poco più del 10% dei procedimenti è basato su denunce e, qualora i lavoratori decidano di segnalare le loro condizioni, questo accade nei territori dove sono presenti sistemi di collaborazione con le procure o altri enti sul territorio.

Un elemento di profonda iniquità che frena le denunce è il fatto che non viene premiato il lavoratore irregolare che segnala. Nel frattempo, i lavoratori a rischio sfruttamento nei campi sono passati dai 140mila del 2017 ai 180mila del 2022 Infine c’è il pianeta oscuro delle lavoratrici domestiche, spesso sfruttate e stigmatizzate. Lo ha raccontato Sara Manzoli, autrice di “Mi devi credere!”. A partire dalla borsa che ciascuna porta con sé. « Dentro c’è la loro vita - racconta perché spesso non hanno spazi per vivere. Come i migranti dei barconi arrivano a portare 5mila euro per entrare in Italia, a volte con viaggi pericolosi. Queste donne lasciano a casa i figli. Preparano uno scatolone prima di partire con cibo e viveri con la promessa di mandare il resto dopo un mese a chi si occupa dei loro orfani bianchi. In Romania e Ucraina la depressione da distacco della famiglia hanno fatto coniare la definizione di sindrome Italia aggravata dalle condizioni lavorative».

Ci sono anche donne partite da zero che ce l’hanno fata. Come Iszi, nigeriana, madre singe di due figli, arrivata in Italia 15 anni fa. «Oggi finalmente - dice orgogliosa - ho un lavoro regolare e stabile. Non avevo titoli di studio, ma grazie all’accoglienza nella struttura “Casa di mamma Nina” ho fatto corsi di formazione e mi hanno aiutato a trovare lavoro». Altra storia di riscatto è quella di Rita, portata dal racket della tratta dall'Africa in Libia e poi destinata ai bordelli della Costa Azzurra. Sopravvissuta alle violenze in Libia e alla traversata in mare, a Reggio Calabria a 15 anni, si è ribellata ed è stata accolta a Carpi da Caritas e Associazione Papa Giovanni XXIII. Ha coronato il sogno dell'infanzia di imparare a lavorare come sarta, con una macchina da cucire. Oggi ha 20 anni. Il lavoro l'ha resa libera.

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