domenica 29 luglio 2018
In viaggio tra i 20mila braccianti sulla Piana del Sele. La metà sono stranieri. L'allarme sanitario di Caritas
La Caritas della diocesi di Teggiano-Policastro in azione sul territorio per aiutare chi chiede aiuto

La Caritas della diocesi di Teggiano-Policastro in azione sul territorio per aiutare chi chiede aiuto

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Sfruttamento del weekend. È quello che avviene nei campi e nelle serre della Piana del Sele, quando non ci sono i controlli. Vittime soprattutto i richiedenti asilo ospiti dei Cas. Ancora una volta, così come abbiamo già incontrato in altre tappe del nostro reportage sul caporalato. Una doppia illegalità, perché è lavoro nero e perché è vietato far lavorare chi è nei centri di accoglienza, ci spiega un magistrato esperto di inchieste sull’immigrazione. Invece qui, in queste fertilissime terre salernitane, avviene e a caporali e proprietari serve anche per tenere bassi i salari dei braccianti maghrebini, da tanti anni presenti stagionalmente, anche in più di 10mila, già ampiamente sfruttati. Ce lo spiegano gli operatori della Caritas della Diocesi di Teggiano-Policastro presenti dal 2014 sul territorio col 'Progetto presidio'. «In quattro anni abbiamo avvicinato più di mille persone e riempito oltre 400 schede», ci spiega Alvaro D’Ambrosio, coordinatore del progetto e responsabile di zona degli scout dell’Agesci. «Ci contattano soprattutto per i documenti e per problemi sanitari, in particolare dermatiti e malattie polmonari provocate dal lavoro in serra senza alcuna precauzione contro gli antiparassitari. Ho visto tante volte la scena del trattore che irrora i pesticidi e i braccianti immigrati subito dietro a zappettare ». E questo raccontano anche i lavoratori che decidono di chiedere aiuto. «Hanno paura di parlare con noi perché se il caporale li vede non li fa più lavorare – ci dice ancora Alvaro –. Quelli più disperati, che soffrono di più, sono più soggetti ad essere sfruttati. Accettano qualunque cosa».

Nella Piana del Sele lavorano 20mila braccianti, la metà immigrati e di questi il 75% maghrebini. Si coltivano pomodori e meloni e poi in serra le insalatine (rucola, valeriana, ecc.) i cosiddetti prodotti di “quarta gamma” in busta, anche di grandi marche internazionali. Pochissimi hanno il contratto regolare, non più del 10%, altri senza o in grigio (più ore e paga minore). Vengono pagati anche qui 25 euro al giorno per 10-12 ore, oppure a cottimo soprattutto per il pomodoro, 7-8 euro a cassone (ne arrivano a fare anche 4-5, ma per pochi giorni).

La novità da 2 anni è lo sfruttamento degli ospiti dei Cas, tutti subsahariani. «Li prendono nel fine settimana, quando nei Cas non ci sono attività. Firmano la mattina del sabato, escono e tornano la sera della domenica quando firmano di nuovo. Così apparentemente risultano sempre presenti». Vengono pagati solo 15 euro al giorno con la scusa che tanto loro il vitto e l’alloggio li hanno già assicurati nei centri. «C’è una guerra tra poveri, c’è astio tra maghrebini e subsahariani, si bisticciano», commenta amaramente il direttore della Caritas, don Martino De Pasquale. «E questo è tutto a vantaggio di caporali e imprenditori disonesti».

L’arruolamento avviene all’alba, alla rotonda di Santa Cecilia, frazione di Eboli. Arrivano i caporali, immigrati e italiani (ma sempre meno) con furgoni bianchi e station wagon. Si fanno pagare 5 euro per il trasporto e per il contatto con gli imprenditori. E sempre alla rotonda si ferma una volta a settimana il furgone della Caritas. Ogni volta una ventina di contatti. Problemi, storie e richieste d’aiuto. Ma si gira anche nelle campagne, raggiungendo i casolari dove vivono i braccianti maghrebini, poco più che baracche, fatiscenti, senza luce né acqua, solo quella di irrigazione dei campi, certo non pulita, che favorisce le malattie della pelle. Ci vivono anche in 15-20. Ma almeno gratis. C’è però anche chi è costretto a pagare. Lo scopriamo seguendo Amhid, mediatore culturale tunisino, in Italia da 25 anni, che parla un misto di arabo e dialetto napoletano. Questa volta la casetta è decente, ma come ci spiega un ragazzo marocchino, pagano 70 euro al mese a persona, più luce, acqua e gas. E sono in 15. Insomma il proprietario incassa più di mille euro al mese. Ovviamente in nero. Il ragazzo ci conferma che prende 25 euro al giorno, senza contratto. Eppure questa è un’agricoltura ricca, 4-5 raccolti l’anno. Enormi distese di serre. Lavorano anche tanti braccianti italiani, ma a 45 euro. «Inoltre gli immigrati non prendono il Tfr – ci rivela Alvaro –, anche se firmano che lo hanno preso».

E non denunciano, anche quando stanno male per il lavoro nelle serre. «Un ragazzo marocchino di 22 anni si era rivolto a noi per problemi agli occhi. Lavorava in un grande vivaio dove coltivavano le rose usando antiparassitari per i pidocchi. Lo abbiamo fatto curare, e poi invitato a denunciare, assicurandogli che gli avremmo fatto trovare un luogo sicuro. Non l’abbiamo più visto». Paura o forse solo la necessità di lavorare, a qualunque condizione. Condizioni fuori legge. Molti proprietari di serre lo sanno e mettono davanti agli impianti dei teli scuri, per non non fare vedere quello che accade all’interno. Per nascondere lo sfruttamento.

Le altre puntate dell'inchiesta di Avvenire nei luoghi dello sfruttamento del lavoro straniero: a Mondragone, Terracina, e sulla Piana di Gioia Tauro

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