martedì 21 febbraio 2017
Creata a Karak un’unità di neuroriabilitazione nel nosocomio delle comboniane. Lo psichiatra: le famiglie partecipano attivamente alle terapie. Suor Adele: risultati in linea con quelli italiani.
Nel deserto dei profughi si curano i più piccoli
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Tutti vorrebbero avere un nonno come Abdelmajid. Ogni settimana attraversa il deserto di Moab per accompagnare i nipoti dalla dottoressa Kofler. Sempre con il sorriso, anche se nessuno lo fa lavorare e vivono in sette con il sussidio delle Nazioni Unite. Sempre con il sorriso, anche se la casa di Homs è stata prima bombardata dagli aerei della Coalizione e poi espropriata dagli uomini del Califfo. Sempre con il sorriso, anche se gli amici di una vita l’hanno tradito e derubato. Abdeladjim sorride e ringrazia Allah anche quando deve raccomandare a Nadia di aspettarlo in macchina, perché, con una sola sedia a rotelle, può spostare solo due nipoti per volta. Li opereranno tutti e Omar e Mohammed un giorno potrebbero camminare: Nadia, lei no. Ha tredici anni. Al massimo riuscirà a tenere i piedi un po’ più dritti, sulla carrozzella.

Eppure sorride anche lei, non appena scorge il neuroriabilitatore dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù. I tre fratellini siriani – tutti affetti da una forma di patologia neuromuscolare degenerativa che provoca anche un grave ritardo co- gnitivo – saranno operati all’ospedale universitario di Amman al termine di un percorso di cura che l’ospedale della Santa Sede offre da qualche tempo nell’Ospedale italiano di Karak, gestito dalle missionarie comboniane. «Periodicamente, un’équipe altamente specializzata cura i bambini della regione, molti dei quali sono profughi iracheni e siriani – spiega Lorenzo Borghese, responsabile delle operazioni internazionali dell’ospedale della Santa Sede –. La ratio è quella di creare un polo di neuroscienze che assista la popolazione e al tempo stesso formi gli specialisti, che qui mancano. Tuttavia, quando un paziente necessita di un intervento, preferiamo che sia effettuato in loco, perché ciò permette di gestire meglio il percorso post-operatorio».

Nella provincia più povera del Paese, il Bambino Gesù ha realizzato una unità di neuropsichiatria infantile e neuroriabilitazione, provvista di elettroencefalogramma ed elettromiografo, e ha formato due fisioterapiste e un tecnico, tutti giordani. Presto, verrà avviata una collaborazione con l’università Mutah: l’obiettivo è quello di preparare degli specialisti in grado, a loro volta, di fare formazione nel campo dell’autismo. La domanda di assistenza è alta; in Giordania si registra un tasso significativo di disabilità infantili. «In tre anni sono passati dall’unità di neuropsichiatria infantile 550 bambini – spiega il neuropsichiatra Giovanni Valeri – ma forse è più importante che, malgrado ci si trovi in mezzo al deserto giordano, in una società tradiziona-lista, i bambini arrivino accompagnati da entrambi i genitori; o che le mamme filmino i trattamenti riabilitativi con i telefonini per ripeterli una volta a casa e che qualcuno chieda in prestito gli ausili che utilizziamo durante le sedute di fisioterapia.

C’è insomma una grande attenzione e una riconoscenza palpabile per quello che stiamo facendo». Effettivamente, il successo di queste iniziative si coglie solo se si considera il contesto: fino a qualche anno fa, anche in queste regioni il bambino disabile era condannato all’indifferenza e a vivere recluso in casa, al riparo dai pericoli e dalla vergogna, non diversamente da quanto avveniva nell’Italia rurale all’inizio del Novecento. Oggi in Giordania, grazie alle politiche governative promosse dalla regina Ranja, le cose stanno cambiando ma i centri pubblici non arrivano a soddi- sfare la domanda; un’ora di terapia privata costa ancora un quinto dello stipendio e i salari del Sud violano ogni statistica. Nell’area di Karak, poi, si riversano molti dei profughi iracheni e siriani che cercano riparo in questo Paese incuneato tra le guerre. Secondo la Caritas, la Giordania ospita due milioni e 7.000 rifugiati.

Secondo l’Acnur, 650.000 sono siriani. Nella terra di Rut e Noemi arrivano soprattutto da Homs e Aleppo: non possono tornare indietro e moltissimi non sanno dove andare. «Abbiamo dei parenti negli Stati Uniti, ma con tre bambini disabili è difficile... » ci spiega Abdelmajid, svelando l’angoscia di chi non può contare né su un’assicurazione – che regola l’accesso al sistema sanitario giordano – né sulla solidarietà familiare, su cui si incardina la società araba. L’integrazione con la popolazione giordana è l’unica speranza cui aggrapparsi: è avvenuto ai palestinesi accolti negli anni Sessanta e il grande campo profughi di Zaatari è già una 'città', ancorché di tende. Il governo di Amman oscilla tra la generosità («eccezionale» secondo il nunzio Alberto Ortega Martin) e la paura che la nuova ondata travolga gli equilibri nel regno hashemita, dove convivono già sei milioni di giordani e tre milioni di stranieri.

Nell’estate scorsa, il rischio di infiltrazioni del Daesh ha indotto i giordani a chiudere le frontiere ma nel berm, la terra di nessuno al confine siriano, tra i campi di Hadalat e Rubkan, si sono raccolti novantamila fuggiaschi, che sono ostaggi delle milizie locali. Le autorità temono infiltrazioni jihadiste e le tensioni si avvertono anche a Karak, dove in dicembre un assalto al castello crociato ha provocato dieci vittime, tra cui una turista canadese; la presenza del nosocomio è stata decisiva per salvare numerose vite. «In ottant’anni, con la nostra attività, oltre a sostenere la piccola comunità cristiana presente in quest’area – spiega suor Adele Brambilla, che guida quest’ospedale da 50 posti letto e un affollatissimo poliambulatorio –, abbiamo instaurato un vero dialogo di vita con i musulmani, che siano beduini o gorani, giordani o profughi iracheni, siriani o etiopi…» Un rapporto di fiducia che la collaborazione con il Bambino Gesù fa crescere, mettendo a disposizione dei più poveri terapie d’eccellenza che non potrebbero permettersi e inserendoli in un percorso riabilitativo, sia neurologico che neuropsichiatrico, che coinvolge attivamente le famiglie.

A Karak, l’ospedale pediatrico della Santa Sede applica un innovativo protocollo di parental traininge presto si lavorerà sulla sindrome post-traumatica da stress, che affligge i minori siriani. Dovrebbe nascere anche un reparto di pediatria, per rendere possibile il ricovero. Non ne avrà bisogno Gazel, che gioca a nascondino con i medici, quando non salta in braccio alla suora: quattro anni e una sindrome autistica che lasciava poche speranze, «ma i risultati che otteniamo grazie all’aiuto del Bambino Gesù sono quelli di un centro di neuroriabilitazione italiano – commenta la religiosa – e sei bambini sono già stati dimessi».

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