venerdì 3 agosto 2018
Viaggio a Cerignola, dove a fianco dei casolari abbandonati e diroccati, ci sono volontari che operano ogni giorno per alleviare le sofferenze dei giovani sfruttati
Nei campi di Cerignola

Nei campi di Cerignola

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«Io non avrò liquidazione, non avrò pensione. E cosa farò? Non posso tornare in Africa. E allorà farò il vecchio barbone». È anche questo il risultato dello sfruttamento dei lavoratori immigrati. Ce lo racconta Giorgio, 47 anni, del Burkina Faso, da più di 10 anni in Italia. Lo incontriamo nelle campagne di Cerignola, in località Pozzo Terraneo. Ci accompagnano i volontari della Caritas diocesana, del "Progetto presidio" e dell’ufficio diocesano Migrantes. È la nostra ultima tappa del reportage su caporalato e sfruttamento in quattro Regioni del Centro-Sud.

Le immense campagne di Cerignola, punteggiate dai casolari abbandonati e diroccati, con accanto baracche, tende e roulotte. Sono i "ghetti diffusi" di Tre Titoli, Ragucci e, appunto, Pozzo Terraneo, in tutto un migliaio di immigrati. In quello dove iniziamo il nostro giro, oltre a Giorgio vive una cinquantina di altri braccianti, tutti del Burkina Faso, senza luce e acqua, che devono andare a prendere a circa un chilometro in una cisterna che viene riempita con le autobotti inviate dalla Regione. Ma è potabile? Non si sa, ma è l’unica e la bevono.

Il primo casolare dove ci fermiamo sta un po’ meglio, riverniciato da poco, come ci spiega suor Paola Palmieri, responsabile della Casa della Carità della diocesi di Cerignola. «Sono stati i ragazzi della parrocchia di San Gerolamo di Trieste, assieme al parroco don Roberto Pasetti, che dopo aver letto un vostro articolo su Tre Titoli, sono voluti venire qua a darci una mano. E hanno riverniciato vari casolari. Che bello! Grazie a loro e grazie ad Avvenire che ci ha fatto conoscere».

Già, perchè nel nostro viaggio abbiamo incontrato tanta solidarietà oltre a tanto sfruttamento. Come quello di Issa, anche lui del Burkina Faso. È appena tornato dalla giornata di lavoro. Raccolta di pomodori, 4 euro a cassone, cottimo. Vietato dalla legge, ma qui e altrove è "normale". Issa ne ha riempiti 7, ne avrebbe potuti fare anche di più ma lo hanno fermato. Il contratto prevederebbe 50 euro lordi a giornata di 6 ore e 30, lui ne ha fatte 10 per 28 euro. E senza contributi, come sempre. «Sono andato a controllare in ufficio e non c’è nessun contributo. Così non posso avere la disoccupazione». E questo è grave per chi, come i braccianti immigrati, fa poche giornate di lavoro, soprattutto se a cottimo, anche mascherato da qualche contratto "grigio". E senza contributi si finisce a fare il "vecchio barbone", come ci aveva detto Giorgio. Un doppio sfruttamento, lavorativo e dopo.

Ci spostiamo a Tre Titoli, il più grande dei ghetti di Cerignola. Al centro c’è un cantiere. Sta nascendo "Casa Santa Giuseppina Bakhita", il centro pastorale per la cura e lo sviluppo umano integrale della persona immigrata. Una chiesa luogo di incontro, un ambulatorio, sale per assistenza legale, per attività scolastica. Ma vuole essere qualcosa di più, come ci spiega il vescovo di Cerignola, monsignor Luigi Renna, che qui viene molto spesso. «È un progetto, un segno, la definisco "un’agorà" dove le persone che vivono lì possono trovare dei servizi utili, ma anche luogo di incontro. Hanno bisogno di umanizzare la loro vita. È il frutto di una riflessione di Chiesa, è una delle Opere di Misericordia, per la liberazione integrale di queste persone, a prescindere dalla loro religione. Ma non basta lavorare qui, in questi ghetti. Serve lavorare sulle coscienze di tutti». E mentre il centro cresce l’attività dei volontari va avanti in un container.

Oggi ci sono i medici e gli avvocati e c’è la fila. Ci presentano Nelson, del Ghana, da 8 anni in Italia, dove si è ammalato di glaucoma, spiega Giuseppe Leone. «Era sempre stato bene ma ora non può più lavorare. Gli stiamo facendo avere la pensione di invalidità e l’indennità di accompagnamento». Il dottor Antonio Pio Palieri sta visitando: 15-20 persone una volta a settimana, d’inverno 40. Le patologie sono legate alle condizioni di vita e lavorative. «Non arrivano malati in Italia, si ammalano qui – ci spiega –. D’inverno malattie respiratorie, d’estate muscolari e articolari. Per il lavoro piegati in due a raccogliere per dieci ore pomodori o asparagi, o a raccogliere in alto l’uva».

Problemi sanitari che si intrecciano allo sfruttamento.

Anche quello drammatico della tratta delle donne per la prostituzione. «È in aumento, tutte nigeriane, anche minorenni – denuncia suor Paola –. Non sappiamo quante sono, arrivano e ripartono. Ma vediamo tanti clienti italiani, compresi ragazzi minorenni che arrivano in motorino». Di queste ragazze si occupa con delicatezza e professionalità l’avvocato Gerarda Carbone. «Molte siamo riuscite a portarle in ambulatorio, ora bisogna portarle via di qua. Per alcune ci siamo riusciti, ottenendo il permesso di soggiorno a fini umanitari, anche se non se l’erano sentita di denunciare». Si può uscire dallo sfruttamento, sia del lavoro che della tratta. È la bella storia di Peter, ghanese, e Mary, nigeriana. Lui lavorava in nero a Tre Titoli. Conosce lei tramite Facebook. Scopre che fa la prostituta. Paga la "maman" e la libera. Ora, grazie ai volontari diocesani, non vivono più a Tre Titoli. Lui fa il custode a Cerignola con un contratto regolare. Lei aspetta un bimbo, in arrivo nei prossimi giorni. La vita e l’amore vincono. Grazie a tanti amici.

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