Le aule vuote del Parlamento riportano un po’ di tranquillità sul Colle. Non frenano però l’attività del capo dello Stato, che continua a monitorare l’evoluzione di un quadro politico che somiglia sempre più a un campo di battaglia. Ieri mattina le porte del Quirinale si sono aperte per i capigruppo della Lega Nord, Bricolo e Reguzzoni, e per quelli dell’Italia dei valori, Belisario e Donadi (poi Napolitano ha avuto un colloquio telefonico con Francesco Rutelli, leader dell’Api). E tutti, come la sera prima i capi-delegazioni del Pdl e del Pd, si sono impegnati ad abbassare i toni del confronto politico, condividendo i forti timori del presidente della Repubblica, indignato per lo spettacolo offerto nelle ultime 48 ore. Napolitano ne ha preso atto e ha affermato che adesso verificherà il rispetto degli impegni presi direttamente con lui da quasi tutte le forze politiche. Già a partire dalla delicatissima giornata di martedì, quando alla Camera saranno di scena il conflitto di attribuzione rispetto ai pm di Milano sul "caso Ruby" e (ma solo se si farà in tempo, il che è difficile) il processo breve. L’appello del Colle è stato pienamente condiviso dal presidente del Senato: «Questo clima quasi blocca le riforme e questo non ce lo possiamo consentire», ha detto Renato Schifani dopo essersi «augurato fortemente che l’appello di Napolitano venga opportunamente e doverosamente recepito da tutte le forze politiche». Nulla di più ha detto Napolitano, nel giorno in cui il Nuovo Polo e il Pd hanno rilanciato l’ipotesi delle elezioni. Anche il normalmente cauto leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, ha agitato lo spettro delle urne (indicando anche la data: giugno): «Francamente in queste condizioni è meglio andare a votare, siamo alla fase finale di un fallimento politico». Pier Luigi Bersani gli è andato a ruota: «Il governo non c’è – ha detto il segretario del Pd – e lo vedono tutti: quando c’è, fa dei pasticci e lo abbiamo visto. Qualsiasi cosa è meglio, elezioni comprese».Le preoccupazioni di Napolitano sono a tutto campo. Dal suo ufficio è partita una telefonata diretta anche a Paolo Garimberti: al presidente della Rai ha raccomandato equilibrio nella "trattazione" dei temi politici, incluso un apprezzamento per il rinvio, in questo frangente, delle nuove nomine e per lo sforzo rivolto ad assicurare il pluralismo. Un’altra telefonata l’ha fatta al ministro dell’Interno, Roberto Maroni, cui ha chiesto chiarimenti sulla "vicinanza" della folla a palazzo Montecitorio, mercoledì, che ha dato poi origine allo scontro in aula fra il ministro La Russa e Fini. Con i suoi interlocutori l’inquilino del Quirinale ha mostrato però di non considerare, per ora, la strada dello scioglimento delle Camere. Anche se ha manifestato qualche dubbio sul reiterato (da parte di Berlusconi) allargamento della maggioranza: «Parla di 330, io alla Camera ancora li ho mai visti. Ma fino a quando il premier ha i numeri, si va avanti».I motivi di consolazione, tuttavia, per il capo dello Stato non sembrano essere molti. A partire dalla constatazione che, fra giovedì e ieri, nessuno è sembrato essere particolarmente propenso ad assumersi responsabilità dirette per l’accaduto. Anche Bersani, dopo aver premesso che «noi gli ammonimenti del capo dello Stato li prendiamo sempre in grande considerazione», ha tenuto a sottolineare che «i patti specifici ci dicono che quelle risse in aula, gli insulti al presidente della Camera, il lancio di oggetti, gli insulti a una deputata portatrice di handicap li hanno fatti tutti loro, ministri e deputati del centro destra. Non si imputi a noi la rissa avvenuta». E ha respinto, il leader Pd, le critiche di aver fomentato la piazza: «Loro hanno tentato un colpo di mano, noi abbiamo reagito in Parlamento e nel Paese». E Felice Belisario, presidente dei senatori Idv, ha spostato l’accento su Pdl e Lega: «Basta forzature da parte loro».