mercoledì 17 novembre 2021
Il reportage francese non ha provocato reazioni scomposte ma riflessioni. Perché la città partenopea cerca di uscire da cliché e folclore, per trovare una nuova identità
Napoli ha voglia di rinascere

Napoli ha voglia di rinascere - Ansa

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Scrivere di “Napoli terzo mondo d’Europa”, come ha fatto Le Figaro, in un servizio dedicato alle elezioni amministrative del mese scorso, è tutt’altro che uno scoop. E forse proprio per questo il reportage del quotidiano parigino ha suscitato reazioni a scoppio ritardato, guadagnando una ribalta un po' tardiva sulla stampa e sui siti italiani, particolarmente dalle parti di Napoli. La categoria è piuttosto quella dei cliché e dei luoghi comuni di cui la città è patria indiscussa, con un incremento più che scontato in periodo elettorale.

Parlare dei mali di Napoli è diventato più che un racconto una vera e propria rubrica, tanto abbondante e vasto, oltre che vario, è stato in ogni momento il materiale sul quale mettere mano. Sarebbe ben difficile ribattere colpo su colpo alle accuse che la giornalista d’oltralpe ha scaricato sulle spalle della città: le spaventose cifre della disoccupazione – soprattutto giovanile - scarsamente compensate da un altro dato fuori misura come quello delle 170 mila famiglie assistite dal reddito di cittadinanza – i trasporti che non funzionano (anche per i cantieri che faticano a chiudersi), il fallimento di Bagnoli, i disservizi e il degrado urbano e, più insopportabile di tutto, la piaga della malavita organizzata e no, sono tutti capitoli, uno più amaro dell’altro, di una storia vera.

Negare l’evidenza sarebbe difficile anche nel paese di Pulcinella.

Il dramma è però proprio quello che tutti insieme, i mali siano diventati cliché e luoghi comuni, fino a cronicizzarsi e a entrare come elementi quasi ordinari nel tessuto della città. Di fronte alle accuse del Figaro, il dato importante da rilevare è quello di una reazione, una volta tanto, non scomposta, neppure – come si è visto – nei tempi.

Nessuno si è stracciato le vesti per una difesa di ufficio. Nessuno ha gridato, come spesso è avvenuto in passato, contro l’onore offeso della città. Il segno di un tempo cambiato si è fatto vivo proprio attraverso una presa d’atto a prima vista così poco partenopea che è valsa come prima e forse più risoluta risposta a un’ondata che, come una risacca, riesce sempre a guadagnare la riva del Golfo. Anche nell’articolo della giornalista d’oltralpe, c’era dell’altro accanto al menù che solitamente l’informazione, anche nostrana, “serve” su Napoli. Messo un po' da parte il folclore dei mandolini e del Vesuvio sullo sfondo del golfo, è difficile oggi non accorgersi della volontà che Napoli mostra di cambiare passo, di venire finalmente a capo di qualcuno tra i suoi tanti problemi.

E uno su tutto: quello di ritrovare una sua identità, forse smarrita proprio nel tourbillon dei tanti luoghi comuni che le si sono appiccicati addosso: alcuni vecchi e perfino stantii, ma qualcuno anche di nuova (e avventata) generazione, come quella di “piccola Silicon Valley” di casa nostra. È certo, tuttavia, che la città non sta alla finestra sul versante di una transizione tecnologica che sta favorendo l’inserimento attivo di molti giovani in progetti importanti e di lungo respiro. La stessa ripresa del turismo, nonostante la grave flessione dovuta alla pandemia, sembra poggiare stavolta su elementi concreti che chiamano in causa soprattutto la valorizzazione di un ambiente naturale e di un patrimonio artistico tra i più rinomati al mondo.

La necessità di ritrovare una propria identità, nel rispetto dell’autenticità della sua storia, deve servire ad evitare l’agguato della più pericolosa delle soluzioni: fare di Napoli una sorta di fenomeno da baraccone sociologico, mettendo insieme tutti gli stereotipi che la perseguitano da secoli e ora aggiornati sulle opposte versioni (e visioni) del solito “rinascimento prossimo venturo” , un orizzonte sempre presente, da qualche tempo, nel cielo di Napoli.

È vero: il mare della normalità non ha mai bagnato Napoli. Ma questa terra non è neppure un deserto. Non può rassegnarsi, pur con tutti i fallimenti alle spalle, a vedere scorrazzare per le sue strade e ogni ora del giorno, bande di criminali impegnati a regolare nel sangue- anche di altri – i propri conti sporchi.

Si potrebbe parlare di emergenza se anch’essa non avesse varcato i suoi limiti naturali. Ma non è il caso di arrovellarsi sulle più o meno giunte definizione di un fenomeno. È senza dubbio più utile prendere coscienza delle cose da fare, e costruire, o ricostruire, attorno a Napoli i suoi argini naturali.

Primo fra tutti è la speranza, ma occorre che essa venga giustificata dai versanti giusti. Non si parte da zero. Senza una rete all’opera nei territori spesso inesplorati del bene comune, Napoli sarebbe già morta. A tenerla in vita è tutto ciò che anche in silenzio si oppone alla sua deriva.

Non resta in silenzio, e alza più che può la voce la Chiesa locale: quando si tratta di difendere chi più soffre i “mali di Napoli”, i poveri e i vessati. Non è senza significato un dato che si contrappone in maniera clamorosa alla stessa immagine corrente della città. Napoli, la “terra dei diavoli” di Benedetto Croce è anche la prima diocesi al mondo per numero di cause dei Santi.

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