martedì 4 maggio 2021
La donna uccisa a Nuevo Chimbote per “accompagnare” gli sfollati della miseria e per vivere fino in fondo la propria vocazione di battezzata
La missionaria laica Nadia De Munari, 50 anni, originaria di Schio (Vicenza), uccisa in Perù a colpi di machete forse durante un tentativo di rapina

La missionaria laica Nadia De Munari, 50 anni, originaria di Schio (Vicenza), uccisa in Perù a colpi di machete forse durante un tentativo di rapina - Ansa

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«Me voy para la costa», cioè «Vado sulla costa», a Chimbote, meta dei disperati “scesi” dalle Ande. La maggior parte finisce per ammassarsi nelle sterminate baraccopoli che cingono i fianchi il municipio pacifico. Come Nuevo Chimbote. Là è andata Nadia nel 2018, dopo oltre due decenni nei poverissimi villaggi di montagna, su richiesta di padre Ugo de Censi, per “accompagnare” gli sfollati della miseria.

Era stata lei stessa a spiegarlo in una delle poche interviste concesse a una radio locale. Nadia De Munari non amava comparire. Anche in quell’occasione le sue parole erano state misurate e asciutte. Nel rivederla ora colpisce quanto il piglio sicuro contrasti con la morbidezza della voce. In quest’opposizione solo apparente tra determinazione e dolcezza, si giocava l’essenza di Nadia, una donna e una laica, decisa a vivere fino in fondo la propria vocazione di battezzata.

Non ha delegato ad altri l’annuncio del Vangelo, lo ha incarnato nella propria vita. Così la ricordano, l’Operazione Mato Grosso, la “sua” Schio e il suo pastore, Beniamino Pizziol che ieri ha presieduto la celebrazione del funerale. «Pensando a Nadia, che ho conosciuto attraverso il ricordo profondo lasciato nella sua terra, mi viene in mente la frase di Paolo VI: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”. Nadia era maestra anche di professione. E riusciva ad esserlo appieno proprio perché testimone», afferma il vescovo.

Monsignor Pizziol, la diocesi che lei guida ormai da un decennio ha una storia di testimoni che hanno versato il proprio sangue nelle periferie cruente. Lo slancio missionario è una caratteristica di Vicenza?
È un tratto che la diocesi porta impresso nel proprio Dna. Ci sono oltre cinquecento missionari vicentini sparsi per il mondo: laici, sacerdoti, famiglie, religiosi e religiose, diaconi. Nonché tre parrocchie con nostri fidei donum in altrettanti continenti: una nel Roraima, in Brasile, l’altra a Beira, in Mozambico, e l’ultima a Lambú, in Thailandia. E, nonostante il calo di vocazioni, non abbiamo voluto “riportarli a casa” perché l’apertura missionaria è insita nella nostra dimensione ecclesiale. Fa parte delle narrazioni familiari. Probabilmente deriva dalla grande migrazione di inizio Novecento verso Australia, Argentina e Brasile. Molti sacerdoti accompagnarono quanti partivano. E, pian piano, impararono l’apertura verso altri popoli e culture. Certo, a volte, la testimonianza implica il sacrificio della vita, com’è accaduto a Nadia, l’ultima di una lunga serie.

Tra l’altro il suo assassinio è avvenuto poco prima del ferimento di padre Christian Carlassare, anche lui di Schio.
Per la diocesi è un momento di dolore. In questi dieci anni da vescovo, però, ho potuto sperimentare in modo concreto come il sangue dei martiri sia seme di vita per la Chiesa. Pur nel lutto, non c’è sconforto. Al contrairo, si respira un sentimento di speranza. Perfino la madre di Nadia, lacerata nella sofferenza, emana una fede profonda. Accade ogni volta.

Le sono già toccate esperienze simili?
In meno di cento anni, sono stati uccisi quindici missionari vicentini. Alcuni sono saliti sugli altari: tre anni fa, ad esempio, è stato proclamato beato in Guatemala padre Tullio Maruzzo, francescano di Lapio. Come vescovo, ho vissuto il lutto diocesano per l’omicidio di suor Olga Raschietti, religiosa saveriana uccisa in Burundi il 7 settembre 2015: anche per lei è in corso il processo di beatificazione. L’anno prima c’è stato il sequestro in Camerun dei sacerdoti Giampaolo Marta e Gianantonio Allegri, catturati insieme alla suora canadese Gilberte Bussier, e tenuti per 57 giorni nella foresta. Fortunatamente, dopo quella terribile prigionia, sono stati liberati.

Come vuole ricordare Nadia?
Come un’ispirazione. Lo è stata da viva e lo è ora. La sua figura sta dando nuova forza a questa terra per uscire dalla desolazione generale del Covid. Da Lassù, continua ad aiutarci.

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