martedì 25 agosto 2020
La madre del piccolo morto di botte era stata già indagata per maltrattamenti. La vicenda (e quella del piccolo Gioele), ripropongono le difficoltà dei servizi sociali, largamente carenti
L'ospedale di Modica in una foto d'archivio

L'ospedale di Modica in una foto d'archivio - .

COMMENTA E CONDIVIDI

Giole, 4 anni. Evan, 20 mesi. Sono gli ultimi due casi di una lunga striscia di minori allontanati, abbandonati, maltrattati, violentati, uccisi. In questi giorni delle due tragedie siciliane, in attesa delle parole definitive della giustizia, si approfondiscono possibile cause, dettagli e circostanze. Ma quanti sono i bambini che vivono in condizioni simili a quelle delle due piccole vittime? In quanti altri casi i bambini finiscono per correre pesanti rischi a causa dell’incuria degli adulti e delle istituzioni oppure, all’opposto, per l’interventismo del nostro sistema di protezione dei minori? Difficile, quasi impossibile, come spesso accade, stabilire le gerarchie delle responsabilità.

Certo comunque che, come in tanti altri casi, la domanda decisiva rimanga la stessa: come mai chi avrebbe dovuto provvedere alla loro incolumità era assente, oppure non ha potuto o saputo intervenire? Il padre di Evan, ucciso a botte il 17 agosto a Modica, nel ragusano, ha raccontato di aver segnalato da tempo ai servizi sociali e poi anche alla Procura, il 6 agosto scorso, la situazione difficile del figlio affidato alla madre 23enne e al convivente di lei. Il padre vive a Genova da tempo per motivi di lavoro. La madre stessa, si è saputo oggi, era stata già indagata per maltrattamenti il mese prima, quando il piccolo era arrivato al Pronto soccorsi di Noto con una frattura alla clavicola.

Nessuno è intervenuto. E infine il piccolo, secondo l’accusa, sarebbe morto per i maltrattamenti violenti infertigli dal 32enne compagno della madre.

Anche nel caso di Giole, il piccolo messinese di cui sarebbe stati ritrovati i resti nelle campagne di Caronia, lungo l’autostrada Palermo-Messina, il sistema delle tutele non ha funzionato a dovere. Gli inquirenti hanno riferito che nel cruscotto dell’auto di Viviana Parisi, la madre che secondo l’indagine si sarebbe tolta la vita gettandosi da un traliccio, sono stati ritrovati due referti psichiatrici molto simili, uno risalente a marzo, l’altro a giugno. I medici avevano diagnosticato alla donna una grave forma di sofferenza psichica (paranoia con crisi mistiche). Viviana sarebbe stata anche ricoverata per alcuni giorni in seguito a un tentativo di suicidio.

Se davvero fosse così ci sarebbe da chiedersi come mai nessuno si sia preoccupato del fatto che la donna rimanesse per periodi così lunghi da sola con il figlio. Possibile che il servizio di igiene mentale non abbia allertato il padre sui rischi incombenti? Possibile che non siano stati coinvolti i servizi sociali? Erano reali i timori riferiti dalla madre a proposito della possibilità che il piccolo venisse allontanato dalla famiglia o erano solo frutto della sua sofferenza mentale? Certo, diciamo ora, se quell’allontanamento ci fosse stato, oggi non piangeremmo una doppia tragedia.

Troppo facile però gettare la croce addosso ai servizi sociali. Presidio in troppi casi inadeguato. La legge prevede la presenza di un assistente sociale ogni 5mila abitanti. Utopia in almeno due terzi d’Italia. Esistono vaste zone del Centro e del Sud dove va bene se si trova un assistente sociale ogni 30 o 40mila abitanti. Impossibile quindi, com’è evidente, svolgere quel servizio di 'sostegno educativo e psicologico' previsto, 'secondo le necessità' che, in nove casi su dieci, non vengono determinate da una valutazione obiettiva dei casi concreti, ma dalle disponibilità finanziarie.

Nell’85 per cento dei Comuni, quelli al di sotto dei 15mil abitanti, la legge permette che i servizi sociali siano consorziati. Possibilità che nella maggior parte dei casi, soprattutto a causa della scure caduta pesantemente sul welfare, viene realizzata affidando il compito a cooperative esterne. Un risparmio per le casse comunali ma che, in troppe situazioni, incide sulla qualità degli interventi e nell’impossibilità di verificare l’operato dei servizi sociali. Solo per alcune situazioni tra quelle che riguardano i minori, per esempio gli allontanamenti coatti secondo l’articolo 403 del codice civile, è previsto il via libera della procura dei minori. Ma non c’è un termine per la comunicazione, come non c’è per l’autorizzazione della procura che, visto l’intasamento ordinario degli uffici giudiziari, può arrivare anche un mese o due dopo il provvedimento.

E così, mentre in alcune situazioni - vedi appunto i due casi siciliani - l’intervento dei servizi sociali sarebbe indispensabile, ci sono troppi casi di allontanamento di minori che scattano per eccesso di zelo, per automatismi che nessuno si preoccupa più di approfondire, per una forma di garantismo a senso unico che vede nella conflittualità dei genitori separati un rischio da cui comunque tutelare i piccoli. Quando il sistema si mette in moto è quasi impossibile arrestarlo anche per le caratteristiche del nostro sistema giudiziario minorile. Possibile che i 63 casi quotidiani di allontanamento di minori siano tutti urgenti e differibili? Evidentemente no. Pochi esempi di queste ore.

Il Tribunale per i minorenni di Torino ha ordinato una nuova perizia per verificare che la precedente Ctu (consulenza tecnica d’ufficio) secondo cui quattro ragazzi della provincia di Cuneo, allontanati dalla madre dopo una separazione e sistemati inspiegabilmente in quattro comunità diverse, fosse davvero adeguata alla situazione. Ma l’avvocato Domenico Morace che segue il caso si chiede: 'Per una nuova perizia ci vorranno mesi. Per quale motivo quattro fratellini devono sopportare anche la sofferenza di stare ingiustamente separati, dopo aver vissuto quella di essere strappati alla mamma?'. Già, perché? Nelle ordinanze nessuno lo spiega.

Come sembra molto fragile la motivazione - 'mancanza di collaborazione' - con cui il Tribunale dei minorenni di Brescia ha ordinato l’allontanamento di una bambina di 7 anni che vive con la madre, anche lei separata, nei dintorni del capoluogo. Per sfuggire all’ordinanza la donna ha lasciato la sua abitazione e si è rifugiata con la figlia da un’amica. Ma le forze dell’ordine, con un’indagine da 007, l’hanno intercettata al supermercato e seguita fino al nuovo alloggio. Quando qualche giorno fa i carabinieri hanno fatto irruzione nell’abitazione per eseguire l’ordinanza, la donna e la figlia in lacrime hanno opposto resistenza. Il provvedimento, come riferisce l’avvocato Patrizia Scalvi che difende la madre, è stato rimandato. Evidentemente non c’era nulla di così urgente per l’incolumità della piccola. E nulla di tanto grave da scomodare una pattuglia dell’Arma. Potremmo continuare a lungo. I casi sono tanti, tantissimi. Forse sarebbe il caso di cominciare a riflettere sull’opportunità dei mezzi impiegati per risolverli.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: