sabato 19 settembre 2020
Morosini: basta ghetti, riappropriamoci degli spazi dei clan. Dopo la denuncia choc del procuratore dei minorenni, Di Palma, riportata in prima pagina da "Avvenire"
L'arcivescovo di Reggio Calabria-Bova, Giuseppe Fiorini Mosorini

L'arcivescovo di Reggio Calabria-Bova, Giuseppe Fiorini Mosorini

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Disagio giovanile e ’ndrangheta, la denuncia di Roberto Di Palma preoccupa (e non poco). All’indomani delle parole del procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, si moltiplicano le reazioni da parte di autorità e società civile. Voci e numeri a conforto della tesi del magistrato che chiamano a una fortissima corresponsabilità la famiglia e le agenzie educative, in primis la scuola e il mondo dell’associazionismo.

«Bisogna arginare la piaga dell’emarginazione e dell’esclusione sociale. Non è accettabile che in città esistano ancora dei ghetti in cui le persone vivono in condizioni degradate. Così come non è ammissibile che ancora oggi si debba fare i conti con tante povertà 'recluse' nella solitudine delle proprie case, nei ghetti domestici, per carenza di servizi ed opportunità», ha detto Giuseppe Fiorini Morosini, arcivescovo di Reggio Calabria-Bova, che dell’attenzione ai giovani ha fatto il suo più grande impegno pastorale da quando è in riva allo Stretto. «La comunità – sostiene monsignor Morosini – deve riappropriarsi degli spazi oggi occupati e gestiti dalla malavita organizzata, deve rivendicare e attuare il principio di sussidiarietà».

Una presa di posizione che deriva dalla conoscenza del territorio; dalle storie e dai numeri. Sempre più minorenni vivono una profonda solitudine colmata soltanto dal brivido del 'sentirsi qualcuno'. In compagnia della ’ndrangheta: la porta d’ingresso è, quasi sempre, una dipendenza. Da dati in nostro possesso, il consumo abitudinario di cannabis inizia già attorno ai 13 anni, mentre a 17 anni c’è chi già fa uso di cocaina. Si tratta di uno 'sballo' di gruppo, spesso abbinato ad altre forme di dipendenze come l’alcool, il gioco d’azzardo (slot machine) o la tecnologia.

Una realtà desolante, come la descrive anche Luciano Squillaci, presidente nazionale della Fict (Federazione italiana delle Comunità terapeutiche) che conosce bene il contesto di Reggio Calabria in quanto reggino: «Da diversi anni denunciamo l’abbassamento dell’età dei ragazzi che hanno a che fare con le droghe e lo spaccio. Bambini, perché tali sono, utilizzati come carne da macello nelle piazze o come galoppini negli affari di mafia. Del resto non ci stupisce la denuncia del procuratore Di Palma, considerando che quotidianamente nei nostri centri di ascolto riceviamo sempre richieste di aiuto per bambini di 12 o 13 anni che fanno uso di sostanze e frequentano giri malavitosi». Squillaci rincara la dose: «Il problema vero è che abbiamo rubato la speranza ai nostri ragazzi e in una terra disperata la pseudo-pedagogia mafiosa ha gioco facile. È la ’ndrangheta oggi che regala sogni ai giovani, illudendoli con facili guadagni e miraggi di potere. E il mondo degli adulti, le agenzie educative devono reagire. Dobbiamo tornare ad essere credibili, a investire in educazione, dobbiamo ricominciare ad occuparci dei nostri figli prima che sia davvero troppo tardi».

Eppure, a essere più attenti, non è difficile scorgere le fortissime sacche di disagio che attraversano intere generazioni: conoscendo le storie di quanti entrano nel tunnel della droga (e della malavita) si può notare come i campanelli d’allarme non manchino. Scarsissimo rendimento scolastico e pessima capacità di interazione con gli insegnanti; abbandono della pratica sportiva e reticenza nei confronti di qualsiasi forma di associazionismo o volontariato. Numeri che sono soffocati dalla logica delle periferie, con interi quartieri o paesi dell’hinterland la cui sorte non interessa a nessuno.

«Il fenomeno dello sfruttamento dei minori da parte della ’ndrangheta, in alcune aree della Calabria, sta diventando oltremodo preoccupante: sono la 'manodopera' privilegiata dalle cosche perché facilmente reperibili e, spesso e volentieri, anagraficamente non imputabili», sottolinea don Ennio Stamile, coordinatore calabrese di Libera, l’associazione antimafia fondata da don Luigi Ciotti. «La criminalità organizzata ne fa una questione di business, di profitto. Come al solito agisce senza scrupoli – ricorda Stamile – , ma tocca a noi proporre modelli alternativi: mi riferisco alla bellezza del volontariato; un bene che libera sé stessi e gli altri. Però occorre un lavoro di squadra con famiglie e scuola: solo così potremo distogliere i ragazzi di alcune 'periferie esistenziali' dalla logica del guadagno facile e dai deliri da ’ndranghetista».

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