sabato 3 agosto 2013
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​«Ci muoveremo perché, nel rispetto della Costituzione, possa esserti restituita quella libertà che ti spetta per la tua storia, così da ottenere da Napolitano il ripristino dello stato di democrazia che questa sentenza ha alterato». È Renato Schifani a spiegare la strategia del Pdl. È lui, il capogruppo a Palazzo Madama, ad aprire il nuovo fronte con una richiesta che prende forma dietro quelle venti parole: grazia per Berlusconi. Ora nella grande sala di Montecitorio dove i gruppi parlamentari del popolo della Libertà sono arrivati per ascoltare la linea del Cavaliere c’è silenzio. Non è più l’ex premier il protagonista. Lui riflette a occhi chiusi e a braccia conserte sul senso di quell’ultima prova di fedeltà. Schifani va avanti e si rivolge direttamente al capo. «Ci muoveremo subito...». Brunetta annuisce. «Sì, ci muoveremo e se alla nostra richiesta di grazia non ci fosse risposta positiva, tutti sappiamo quello che occorre fare: difendere la democrazia nel nostro Paese». I toni sono pacati, ma la tensione è alta e nessuno se la sente più di escludere uno strappo. Deputati e senatori hanno già consegnato le dimissioni nelle mani dei capigruppo. Sembra quasi un tentativo di forzare la mano al Quirinale, un modo per dire: senza grazia salta tutto. Ma la verità è diversa. Non è un vero ultimatum. È più un tentativo disperato di fare qualcosa per il leader oggi nell’angolo. Berlusconi sembra commosso, ma con dieci parole blocca i propositi bellicosi legati alla richiesta di grazia: «Non dovete pensare a me, dovete pensare al bene del Paese».È ancora il capo a dare la linea. È ancora lui a frenare quel pressing sul Colle che sintetizzato sulle agenzie di stampa finisce con assomigliare a un ultimatum. Napolitano comunque non chiude la porta. Anzi è pronto a ricevere i capigruppo e potrebbe farlo già domani. Eppure nessuno crede possibile una svolta vera, nessuno scommette su un sì del capo dello Stato all’appello del Pdl. C’è disorientamento nel Pdl che assiste al dramma umano e politico di Berlusconi. Ora non c’è una strategia. Non c’è un’idea per tornare centrali. Il Cavaliere parla ai gruppi. Confessa il suo sdegno per una «sentenza basata sul nulla». Su un «teorema costruito ad arte con un unico fine: eliminarmi dalla scena politica». Poi sferra un affondo senza nemmeno troppa convinzione. «La riforma della giustizia va fatta, va assolutamente fatta. È un nostro dovere centrare questo obiettivo altrimenti meglio tornare alle elezioni al più presto». Parole nette, ma anche queste tutte da decifrare: il Cavaliere non vuole la crisi e non vuole il voto. Vuole invece sul serio una riforma della giustizia alla quale – si ripete sottovoce ai piani alti di Palazzo Grazioli – potrebbe legarsi un’amnistia.    Quando è notte Berlusconi ripensa alla giornata. Il pranzo con i figli e gli avvocati. L’amarezza di Marina, le valutazioni tecniche di Coppi e Ghedini. Ma la sua testa è tutta ferma all’incontro con il Pdl che lo saluta in piedi con tre interminabili applausi. Ferma a quella forte prova d’affetto. Ferma alle parole e ai gesti. È Alfano a prendere la scena. «Se c’è da difendere i nostri ideali e la storia di tutti noi siamo pronti...». Ora il popolo della Libertà guarda il vicepremier. Lui commosso va avanti guardando Berlusconi dritto negli occhi. «La storia del presidente coincide con la nostra, siamo pronti alle dimissioni a partire dai ministri del governo», ripete Alfano. Il Pdl applaude, ma sa già che la delegazione ministeriale resterà al suo posto. Anche perché Berlusconi vuole così.
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