giovedì 24 febbraio 2022
La polizia greca assolda i siriani per respingere i connazionali che tentano di passare il confine dalla Turchia. "Non si viene pagati ma si è ricompensati con gli oggetti sottratti ai rifugiati"
Abida (a destra), madre di tre figli e di nuovo in attesa, nel container che divide con la vicina Kulsoom

Abida (a destra), madre di tre figli e di nuovo in attesa, nel container che divide con la vicina Kulsoom

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Quando si pensa di avere ascoltato tutto il campionario dei mezzi utilizzati dalle autorità greche per ostacolare vite già in partenza tormentate, quello è il momento in cui arriva la testimonianza che non ci si aspetta. Accade sempre così, in Grecia, con i racconti di chi entra in Europa dalla sua rotta orientale. Questa volta la storia spiazzante è quella di Mohamed A., un ragazzo siriano che ci dà appuntamento in piazza Vittoria, nel centro di Atene. «La polizia greca impiega i rifugiati per fermare e respingere in Turchia le persone in arrivo sul confine. In un campo qui in città ho conosciuto uno di loro, siriano come me. Sulla frontiera lavorava con le autorità greche, vestiva come loro, non potevi distinguerlo perché avevano tutti il volto coperto» dice sicuro. «Non si viene pagati, ma si è ricompensati con gli oggetti sottratti ai rifugiati respinti, collane, anelli, telefoni. Quel siriano era venuto al campo per rivendere la roba».
Non è una storia inventata, né un caso isolato. Migranti contro migranti, connazionali che incrociano i loro destini nella boscaglia, su fronti opposti. «Questo è il modus operandi alla frontiera terrestre turco-greca dal 2020. Ci è stato raccontato dozzine di volte da chi, sentendosi offrire l’incarico, non l’ha accettato, o da chi ha conosciuto qualcuno che lo svolgeva» conferma Natalie Gruber di Josoor International Solidarity, Ong austriaca che opera in zona. Il confine in questione, lungo il fiume Evros, è lo stesso che oltrepassavano a inizio febbraio i 19 migranti morti forse di freddo, trovati semi svestiti. «Hanno preso i miei compagni uno per uno, e di sette che eravamo siamo giunti a Salonicco in due. La polizia ti spoglia di tutto, abiti, soldi, documenti. Ti lasciano i pantaloni» racconta Omar, palestinese. Fa ancora più male sentirlo raccontare da un uomo non più giovane come Abdul Fattah, afghano di Mazar-i-Sharif, in viaggio con la moglie e cinque figli. Lo incontriamo fuori da un campo. «La polizia greca, in divisa, ci ha respinti in Turchia. Mi hanno fatto spogliare la giacca e lasciato senza, malgrado fosse inverno. Non mi hanno picchiato, quello accade ai ragazzi soli». Abdul Fattah è anche l’esempio delle sfiancanti, infinite attese che tocca sopportare, una volta entrati nel Paese: dopo un anno e 4 mesi ancora aspetta la prima intervista per l’asilo. Lo scorso giugno il Governo greco ha dichiarato la Turchia “Paese terzo sicuro” per le nazionalità che più di frequente chiedono protezione. «Così ora la prima intervista verte sulla permanenza in Turchia, non sui rischi in Afghanistan, Siria o Congo» spiega Ron Sangal di Medical International Volounteers. «Abbiamo visto molti fallire il primo colloquio, la gente ha paura, perché i respingimenti informali continuano».
Mentre negli ultimi mesi si è assistito a nuovi arrivi dal confine di terra (pochissimi dalle isole, che si svuotano) per tutti, con o senza asilo, le condizioni si fanno più precarie. Molti non hanno scelta se non tornare nei campi, altri affollano appartamenti. «Si affittano posti letto ma anche divani» spiega Lourdes Tello di Lighthouse Relief, che denuncia come, nel passaggio di gestione da Unhcr al governo greco della (magra) cash assistance, per quattro mesi le card dei richiedenti asilo siano rimaste vuote. «Ai nostri numeri d’emergenza ci chiedono sempre più cibo e latte per i bambini». Anche chi ottiene l’asilo si trova presto senza mezzi. Così è per Ismail, afghano che anni fa ha perduto una gamba in un’esplosione. Quando la sua richiesta è stata accettata ha dovuto liberare in fretta l’alloggio e si è rifugiato al campo di Malakasa. «Non ho più la cash card, ma con le stampelle non posso andare a raccogliere frutta, come gli altri». Nel campo di Eleonas, Abida, pachistana, ci invita nel container dove vive. I suoi tre figli sono nati qui e tra un mese nascerà la quarta. «Sono arrivata nel 2015, sette anni fa – dice, scandendo ogni lettera – Andare via illegalmente ci costerebbe 6.000 euro. Non li abbiamo».
C’è chi resta bloccato per anni e chi sta ripartendo. Per la rotta balcanica, dall’Albania, si attende la bella stagione. Chi può compra un passaporto falso. «Se ne trovano tanti online, ci sono gruppi Facebook specifici. Ti inviano le foto e cerchi chi ti somiglia», spiega Omar, il ragazzo palestinese. C’è, infine, chi non regge e si perde. Così accanto ai senzatetto greci siede anche qualche rifugiato. «Quelli che restano esclusi dagli aiuti sono i più giovani e soli» dice Artur Cipllaka di Refugees’ Refuge che con sandwich e tè, per strada, fa quello che può con i suoi volontari. «Se si arriva da una guerra, la mente già vacilla, i pensieri corrono, e se si resta bloccati ci si paralizza, si finisce per strada con droga e alcol a pochi euro. È come con quelle porte che, una volta usciti, si richiudono alle nostre spalle senza possibilità di riaprirle. La maniglia funziona solo dall’interno. Serve qualcuno che ci apra». Attivisti come Artur e i volontari di una miriade di Ong, in questi anni, hanno fatto di tutto per attutire i colpi delle misure imposte dalle autorità. Hanno tentato di riaprire qualche porta sbattuta addosso a chi, nell’Europa, ci aveva sperato davvero.
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