sabato 11 luglio 2020
I bengalesi nei campi libici erano diventati aguzzini dei connazionali, che li hanno riconosciuti Intanto proseguono gli sbarchi: ieri a Lampedusa sono approdate 618 persone, hotspot al collasso
Campi libici

Campi libici - Archivio Ansa

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Picchiare più forte per guadagnarsi la libertà. Anche in Libia il tempo dei kapò trascorre al contrario. Prigionieri che si fanno aguzzini per avere migliori condizioni di vita e un passaggio in gommone verso l’Europa. Stavolta la polizia di Agrigento ha arrestato due bengalesi, riconosciuti dalle vittime, tutti loro connazionali.

I due arrestati, di 35 e 31 anni, sono accusati di associazione per delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione illegale, tratta di esseri umani, sequestro di persona e tortura. Il flusso di bengalesi diretto verso l’Europa si è moltiplicato nell’ultimo anno, da quando i trafficanti libici hanno stretto accordi con la malavita dei Paesi d’origine. Con relativa facilità i migranti asiatici raggiungono l’Egitto acquistando “pacchetti” di viaggio multitratta. Uno scalo dopo l’altro, alternando aerei, treni e bus, raggiungono il Paese delle Piramidi. Poi, con la copertura dei clan libici della Cirenaica, vengono fatti arrivare fino ai sobborghi di Tripoli. Non è la prima volta che a finire in prigione sono gli addetti ai tormenti.

Ormai la squadra mobile agrigentina guidata da Giovanni Minardi è la bestia nera dei torturatori. Una decina quelli individuati più di recente; tre sono stati condannati poche settimane fa a 20 anni di carcere ciascuno: erano stati arruolati nella prigione ufficiale di Zawyah, su cui l’attenzione degli investigatori resta alta. I due arrestati ad Agrigento su ordine del pm Emilia Busto e del procuratore Luigi Patronaggio avevano ricevuto l’incarico di spremere i connazionali ottenendo dalle famiglie in Bangladesh quanto più denaro possibile. Secondo le indagini e le testimonianze sarebbero stati spostati in più prigioni, passando da una milizia all’altra. L’inchiesta non è stata facile; gli investigatori avevano ottenuto informazioni dopo alcuni sbarchi in altre province siciliane. I migranti avevano raccontato la loro odissea.

«Mai prima d’ora – conferma un inquirente – avevamo avuto notizia di bengalesi vessati da loro connazionali». La polizia ha così esaminato numerosi altri sbarchi, individuando in un recente episodio a Lampedusa alcuni stranieri originari del Bangladesh; le foto segnaletiche sono state mostrate alle vittime, che li hanno riconosciuti. Le indagini passeranno ora per competenza alla Direzione distrettuale antimafia di Palermo.


Gli asiatici erano arruolati dai trafficanti libici per vessare i compagni e spremere soldi alle loro famiglie 'in cambio' di condizioni migliori e di un passaggio gratis in gommone verso l’Ialia

A maggio 26 bengalesi erano stati trucidati in Libia perché nel tentativo di ribellarsi ai soprusi un secondino era rimasto ucciso, scatenando la rappresaglia del clan: per un libico morto, 50 prigionieri vennero fucilati con le mitragliatrici; più di metà sono morti sul colpo, gli altri sono rimasti gravemente feriti. Intanto, mentre in mare non c’è alcuna nave umanitaria, si stanno susseguendo sbarchi e avvistamenti. Solo ieri a Lampedusa sono approdate 618 persone, tra cui donne e minori, per lo più a bordo di barche di piccole dimensioni, a eccezione di due episodi con 95 e 267 persone stipate sui barconi. Intanto proseguono anche i trasferimenti dall’hotspot di contrada Imbriacola, ormai al collasso. Circa 150 migranti hanno lasciato l’isola con un traghetto verso Porto Empedocle.

Ma in Libia c’è nuova fibrillazione. Dopo il blocco del 17 gennaio a causa del conflitto interno, potranno infatti riprendere le esportazioni di petrolio su larga scala. Ma l’annuncio della compagnia statale non è piaciuto a molti. A cominciare dal controverso ministro dell’Interno, Fathi Bashaga, che dopo i proclami sull’oro nero che «appartiene a tutti i libici» ha dettato le sue condizioni. Al ministero infatti sono affiliate numerose milizie, le “polizie petrolifere” legate ai clan e alcune “guardie costiere”. «Bisogna garantire – dice Bashaga – che gli introiti siano gestiti in maniera trasparente e distribuiti equamente tra tutte le regioni e che ciò non causi divisioni segrete e rivalità politiche».

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