martedì 21 agosto 2018
Al Meeting l'intensa testimonianza della giovane Veronica, sorridente sulla sua sedia a rotelle: senza la malattia non mi sarei mai immedesimata nella Croce di Cristo
La giovane scrittrice disabile Cantero Burroni (Gallini)

La giovane scrittrice disabile Cantero Burroni (Gallini)

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Ogni tanto la tecnologia si inceppa, ma non è detto che sia un male. Al Meeting di due anni fa, per esempio, era previsto un collegamento via Skype con Verónica Cantero Burroni, giovanissima scrittrice argentina che proprio nel 2016 aveva ricevuto a Napoli il premio Elsa Morante per il suo romanzo Il ladro di ombre, edito in Italia da Pagina. La connessione però andava e veniva. Vorrà dire che verrai a trovarci di persona, avevano concluso gli organizzatori. E adesso eccola a Rimini, Verónica, seria e sorridente sulla sua sedia a rotelle. Partecipa a uno degli incontri principali della giornata di martedì, il cui titolo, “Essere felici si può”, riprende e ribadisce il tema generale del Meeting, “Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice”.

“Per me questa non è un’ipotesi o una domanda, ma un’affermazione”, avverte lei fin dalle prime battute. La platea trattiene il fiato, perché a parlare è una ragazza di soli 16 anni, abituata oltretutto agli appuntamenti con “il mio amico bisturi”, come lo chiamano lei e il fratello, disabili entrambi. L’intervento più recente risale a pochi mesi fa e per Verónica è stato un’altra prova e un’altra conferma.

Un altro miracolo, anzi: uno dei tanti di cui la sua esistenza è costellata. Nata a Buenos Aires nel 2002, vive con la famiglia nella cittadina di Campana, dove i suoi libri sono già considerati patrimonio locale. Ha iniziato a scrivere all’età di sette anni ed è determinata a continuare. Lo si capisce dalla proprietà con cui cita i testi di Jorge Luis Borges e di Dacia Maraini. La citazione più importante, in ogni caso, rimane quella da Miguel Ángel Asturias, il grande autore guatemalteco secondo il quale i popoli del Sud America guardano al mondo con due occhi: uno di carne, che permette il rapporto con la realtà, e uno di vetro, che apre alla dimensione del sogno. “È un brano che anche papa Francesco ha commentato rivolgendosi ai giovani cubani durante il suo viaggio all’Avana – spiega con competenza Verónica –. Qui sognare significa desiderare, significa rifiutarsi di chiudersi in sé stessi e sforzarsi di immaginare, invece, in che modo ciascuno di noi può cambiare il mondo. Se penso a me stessa, mi rendo conto che senza la disabilità non mi sarei mai dedicata alla scrittura, né sarei riuscita a immedesimarmi nella sofferenza di Cristo sulla Croce. È questo il dono che ho ricevuto l’ultima volta che sono entrata in sala operatoria. Lo ripeto: non bisogna avere paura di essere felici”.

Dall’America Latina arriva anche l’altra testimonianza di cui si compone l’incontro introdotto dal presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, Giorgio Vittadini. Da quattordici anni Paola Cigarini vive a Salvador Bahia, nel Nordeste brasiliano. Opera come responsabile del Centro educativo João Paulo II. Formalmente è un doposcuola situato in una delle favelas più tormentate della città, il Súburbio Ferróviario, ma in sostanza è un luogo di aggregazione, nel quale studiare, praticare lo sport e contrastare la violenza che, altrimenti, sembra dilagare incontrastata.

“Nelle periferie brasiliane è in atto un vero e proprio genocidio, le cui prime vittime sono purtroppo i giovani”, osserva Paola Cigarini. Lei per prima ha faticato a comprendere le dinamiche di un luogo così estremo. “Un giorno ho chiesto ai ragazzi quanti di loro avessero avuto un parente assassinato – racconta –. Tutti, nessuno escluso, hanno alzato la mano. Dal letto al cibo, quello che per noi è dato per scontato è per loro un’incognita, eppure la nostra struttura non ha mai subito danni. In un contesto nel quale è considerato normale proteggersi con i vigilantes, noi non abbiamo mai fatto ricorso a protezioni di sorta. Ci esponiamo spesso, certo, ma non c’è altro modo per superare la distanza. Difendersi non porta a nulla, l’inclusione è l’unica strada che permette di far battere il cuore allo stesso ritmo della realtà”. Questa armonia dovrà pure avere un nome ed è ancora Verónica Cantero Burroni a trovarlo, con parole semplici e profonde: “Quando ho incontrato il Papa – dice – non sapevo che cosa sarebbe successo. Poi lui mi abbracciata e in quel momento ho saputo che la felicità è esattamente questo: la felicità è essere abbracciati”.

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