venerdì 3 luglio 2015

Bisogna cominciare a pensare a un'assistenza mirata. Che superi le barriere linguistiche e un modo assai differente di concepire, manifestare e gestire la malattia

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L'accoglienza degli immigrati implica anche una dimensione sanitaria che non può essere ignorata nella drammatica fase dell’emergenza, ma che non deve nemmeno essere elusa nella successiva fase dell’integrazione. Alle migliaia di migranti che, in numero sempre crescente, sbarcano sulle nostre coste dopo viaggi allucinanti, oltre che fornire cibo, alloggio e accoglienza umanitaria occorre dare anche un’adeguata assistenza medica. In primo luogo perché per le terribili condizioni del viaggio in mare, stipati sino all’inverosimile su barconi, le loro condizioni di salute all’arrivo sono assai precarie: disidratazione, fame, fatica, traumi, ustioni, gastriti ed enteriti, malattie dermatologiche, talvolta infezioni, soprattutto nei neonati e nei bambini, nei casi in cui non portano a morte, indeboliscono un organismo già compromesso per le vicende che hanno preceduto l’imbarco. Ancora più delicata la situazioni nel caso non infrequente di donne incinte o che addirittura partoriscono durante il viaggio. Tutto ciò richiede un intervento medico immediato per mettere in atto adeguate terapie di supporto e di cura.In secondo luogo per evitare che i migranti stessi possano diventare inconsapevoli importatori di patologie infettive trasmissibili. Questo secondo aspetto, spesso enfatizzato e strumentalizzato per ragioni politiche, è quello che in realtà desta meno preoccupazioni sul piano strettamente sanitario: al di là di un discreto numero di casi di scabbia (un’infezione parassitaria contagiosa della cute, ma che si trasmette solo attraverso un contatto diretto e prolungato pelle-pelle tra un malato e sano, quindi con modalità non facili né immediate) e di qualche sporadico caso di malaria e di tubercolosi (peraltro subito identificato e oggetto di ricovero in ospedale), patologie infettive gravi e facilmente diffusibili non sono state rilevate nonostante le decine di migliaia di persone sbarcate nel nostro Paese in tutti questi anni. Lanciare allarmi di qualsiasi tipo su presunte epidemie portate da queste persone non solo è disumano, ma è assolutamente ingiustificato. Se si vuole lanciare un allarme, lo si faccia invece per denunciare i rischi a cui si espongono queste persone per scappare dalle guerre e dalle persecuzioni presenti nei loro Paesi, per mettere in evidenza le carenze del sistema di accoglienza e le condizioni dei centri in cui queste persone  vengono portate dopo lo sbarco (nonostante gli sforzi logistici della nostra Marina e gli interventi sanitari messi in atto dalla Croce Rossa, da Emergency e da altre associazioni umanitarie), per fare in modo che vengano colmate le lacune della normativa per i minori stranieri non accompagnati. Nella successiva fase dell’integrazione degli stranieri immigrati che vogliono restare in Italia l’accoglienza sanitaria non è tanto un problema logistico e organizzativo di inserimento all’interno del Sistema Sanitario Nazionale, ma è innanzitutto un problema culturale.Spesso i medici si trovano a confrontarsi quotidianamente non solo con lingue diverse (con già tutta una serie di difficoltà legate a questo aspetto), ma anche con culture profondamente differenti dalla nostra nel modo di pensare, gestire e manifestare la malattia. Non comprendere e soprattutto non tenere conto di questa diversità esistenziale e culturale del paziente – e quindi delle sue differenti modalità di rapportarsi con il proprio corpo e con la malattia, di comunicare il dolore e il suo disagio fisico, può portare non solo a un’incomprensione sul piano relazionale, ma anche a commettere gravi errori di diagnosi e, di conseguenza, di terapia. I saperi sulla medicina, sulla malattia e sulla cura variano nei diversi luoghi e nelle diverse culture del mondo. In un mondo globalizzato e in una società multiculturale nessun malato deve sentirsi “fuori luogo”, almeno sino a quando la parola “umanità” riuscirà a conservare un significato. In luoghi geografici differenti, spesso lontani dai Paesi di origine, i contesti culturali variano, e di conseguenza anche le pratiche terapeutiche e i farmaci che vengono proposti come elementi di cura devono tenere conto di questo. La necessità di saper offrire una “medicina interculturale” (in grado cioè di ricomporre tra loro culture e malattie, luoghi e persone) deve essere un elemento da tenere in adeguata considerazione quando il medico propone una soluzione terapeutica a un malato che appartiene a una tradizione culturale differente dalla propria.Il ruolo dominante della nostra medicina (biomedicina) e l’eccessivo potere di una burocrazia soffocante che ostacola la gestione sia della sanità pubblica che di quella privata limitano ancora fortemente nelle società occidentali l’applicazione di queste nuove strategie mediche attente a valorizzare contesti territoriali e culturali differenti. Nei Paesi con grande impatto migratorio – come nel caso dell’Italia – un incontro tra antropologia e medicina è inevitabile e non più procrastinabile per dare un solido fondamento scientifico alla medicina interculturale. In questo contesto l’antropologia medica si può considerare dunque come una disciplina che rivendica un suo preciso spazio nel contesto biomedico. Nel rapporto di cura tra malato e medico tuttavia, mentre in antropologia si insiste sulla necessità di riconoscere gli aspetti culturali e relazionali del sofferente (disagio esistenziale), sul versante biomedico si continua a credere all’opportunità di estendere il concetto di biologico sino a comprendere la personalità e l’identità storica di ogni paziente (biografia). Per lo sviluppo di una vera medicina interculturale diventa fondamentale la capacità di liberarsi di un modello interpretativo unidirezionale, orientandosi invece verso un modello che consenta un’integrazione teorica fra le istituzioni e i saperi, all’interno del quale possano svilupparsi veri spazi di dialogo.In una società multietnica e multiculturale come la nostra una vera accoglienza sanitaria si deve confrontare con tre problemi fondamentali: complessità, formazione e organizzazione. La complessità è dovuta alla grande varietà di culture e di atteggiamenti fisici e mentali verso la malattia che i medici possono incontrare nella loro pratica quotidiana. Lavorare sulla relazione di cura non è solo un aspetto formale che cambia in rapporto al tipo di paziente che si ha davanti, ma diventa un momento fondamentale per avere la garanzia di espletare correttamente il proprio lavoro clinico e il proprio mandato sociale. La formazione del medico quindi, già sin da suo iniziale percorso di preparazione universitaria, non può oggi prescindere dalla consapevolezza di questa realtà: conoscere le diversi dinamiche e le differenti esperienze di malattia appartenenti a molteplici realtà culturali. Infine anche l’organizzazione deve tenere in adeguato conto questo aspetto. Se non si mettono gli operatori sanitari in condizione di lavorare sui molti significati esistenziali di malattia e di attivare in modo coerente gli altri servizi presenti sul territorio, lo sperpero di risorse (umane ed economiche) è garantito. Solidarietà e responsabilità, consapevolezza e umanità devono essere quindi i quattro pilastri su cui deve appoggiarsi e reggersi l’accoglienza sanitaria per gli stranieri migranti, sia di passaggio che residenti nel nostro Paese.
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