giovedì 22 agosto 2013
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​Compito arduo per un ministro della Difesa cattolico spiegare proprio ai cattolici che chi porta la divisa non è per ciò stesso un demonio. Anzi, se la Chiesa ha santificato 130 persone, che prima di stare sugli altari frequentavano una caserma, un motivo ci dovrà pur essere. Mai – che si ricordi – tante stellette sono state ospiti del Meeting, e a Mario Mauro, ministro della Difesa, è toccato proprio questo compito. Dirà che i nostri militari, impegnati in 36 missioni di pace in 23 Paesi lontani, portano la pace, la riconciliazione e il dialogo. Ma le missioni costano, perché è la pace che costa. Mauro ricorda la stele a Washington che rammenta agli americani le ferite della guerra in Corea: “Freedom is not free”, la libertà non è gratis, un prezzo va pagato. Forse dovremmo scriverlo anche noi da qualche parte. Queste stellette al Meeting, dirà ancora il ministro, non sono una trovata propagandistica, ma solo un invito a guardare la realtà che è dietro le cose. E la realtà è consentire la democrazia dove è negata. Al contrario, quando l’Occidente si è voluto fare i fatti suoi, il delitto è stato più grave. E maggiore la vergogna: «Abbiamo ammazzato l’Europa, – dice Mauro – quando abbiamo consentito la tragedia di Sebrenica, e in Uganda gli 850 mila morti in pochi giorni non ci sarebbero stati se avessimo permesso a settecento soldati francesi di mettersi in mezzo». Mauro è vissuto a Peschici nel Gargano e spiega che in questo paesino del Sud, nei suoi vicoli, se succede qualcosa c’è sempre qualcuno che si «mette in mezzo» per portare la pace tra chi litiga. Allora una grande nazione come l’Italia non deve farsi “mingherlina” (dice proprio così), ma mostrare la propria forza, la propria capacità di mediare: «Ciò – spiega – non vuol dire che abbiamo le armi in pugno né che andiamo lì a conquistare territori, ma lo facciamo per contribuire alla costruzione di una società più giusta».

Accanto al ministro, nell’aula gremita del Meeting che ha ospitato il dibattito sulle nostre missioni di pace all’estero, siedono il generale Luciano Portolano, capo delle operazioni del Comando operativo interforze, di grande esperienza in missioni di peacekeeping, il maggiore Giuseppe Amato e il caporal maggiore scelto Monica Contrafatto vittima di un attentato nel Gulistan. Portano il loro racconto e spiegano il cosiddetto “modello italiano” che è attenzione alla gente, rispetto delle loro tradizioni. Tale modello, per il ministro, ha un’altra caratteristica: «I militari italiani riconoscono gli altri come fratelli e questo fa scolorire la concezione che vede la missione militare come un intervento di guerra». La giovane caporal maggiore tocca tutti quando racconta la sua storia: «Mi dicevano che poteva succedermi qualcosa, ma quando vedi gente che soffre non ci pensi perché sai che sei partita per fare del bene e per lasciare qualcosa di te». Si commuove perché in questa terra, l’Afghanistan che ha raccolto l’ultimo respiro di 53 militari italiani, ha lasciato non soltanto una gamba ma la possibilità di continuare a fare un lavoro in cui ha creduto da bambina. Pensiamo subito all’esercito, ma le missioni vedono impegnate a vario titolo tutti i nostri corpi militari. Al Meeting c’è sempre folla allo stand della Marina Militare dove è in mostra un modellino del Cavour, la nostra portaerei che diventò un grande ospedale sul mare dopo il terremoto che sconvolse Haiti il 12 gennaio del 2010. I bambini non lo sanno, e toccano un piccolo Amerigo Vespucci a vele spiegate, sognando un mare lontano.

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