giovedì 23 ottobre 2014
​La storia di coraggio e resurrezione di Maria Stefanelli, testimone di giustizia: dopo l’agguato a suo marito, il capo ’ndrina Francesco Marando, ha denunciato le cosche. Ha deposto nel maxi processo Minotauro e vive sotto protezione perché «loro mi cercano ancora».
COMMENTA E CONDIVIDI
«Che i tuoi zii di me si scordassero non l’ho mai pensato: quando la ’ndrangheta mette una taglia sulla tua testa, passano i decenni ma non ti dimentica... ». A parlare è Maria Stefanelli, vedova del boss della ’ndrangheta Francesco Marando, ucciso in un agguato nel 1996. La sua è una di quelle storie di coraggio e di resurrezione che, se non divulgate, rischiano di ammuffire nei verbali giudiziari. Per fortuna però - e grazie alla tenacia di un’altra donna, Manuela Mareso, giornalista di razza e direttrice della rivista Narcomafie, che l’ha accompagnata nel percorso di scrittura – ora la sua storia è diventata un libro, appena approdato sugli scaffali delle librerie: «Loro mi cercano ancora» (Mondadori, collana Strade blu). Un racconto che, già dal titolo, narra della difficoltà di vivere un’esistenza in fuga, protetta solo dalla propria forza d’animo e dalla cortina di fumo (nuova identità, cambio di residenza, uno scarno sussidio e, se va bene, un lavoro) che lo Stato spande attorno a quelle persone (testimoni di giustizia, è la designazione burocratica, e sono attualmente 85, protetti insieme a 253 loro familiari) che rischiano la vita per aver denunciato gli autori di gravi reati.  Dell’uccisione del marito, diciotto anni fa, la signora Stefanelli venne a sapere dal telegiornale: «È stato ritrovato il corpo carbonizzato di un uomo... Portava al dito una fede nuziale con inciso “Maria 9 giugno 1990”». Proprio il suo nome e la data delle sue nozze, pensò Maria, trentunenne e con una bimba piccola, che strana coincidenza... Ma più tardi, quando davanti alla porta di casa giunsero i primi familiari per le condoglianze, comprese cosa era accaduto: «Mi crollò il mondo addosso, ma non posso negare che quella notizia fu per me una liberazione... », ha dichiarato in seguito davanti a un tribunale piemontese, nel corso del maxi processo «Minotauro», celebrato a Torino contro decine di presunti affiliati a nove 'locali' di ’ndrangheta radicati in Piemonte. Alla macchina della giustizia, con la sua deposizione, Maria offre un contributo prezioso, perché la ’ndrangheta l’ha conosciuta fin da ragazza: oltre a essere stata moglie di un boss, è sorella di Antonio Stefanelli e figliastra di Antonino, esponenti di una cosca trapiantata a Varazze (Sv) caduti in un agguato nel 1997. Da quando Maria decide di testimoniare, lei e sua figlia entrano nel programma di protezione del ministero dell’Interno, perché i boss l’hanno tacciata di infamità, condannandola a morte: «Vivere braccata come un anima-le, nascosta, in un’eterna fuga; non poter mai dire chi sei né raccontare la tua storia ad alcuno; dover mentire continuamente sul tuo passato, non riuscire a immaginare un futuro diverso dal presente...». Maria sa di aver fatto la scelta giusta, ma il fardello è pesante: «Tornare a muovermi con degli agenti significa però buttare all’aria qualunque sforzo per liberarmi dalle nevrosi che mi consumano. Come quella di guardarmi sempre alle spalle quando cammino, di ritrarmi quando qualcuno mi si avvicina, di chiudermi a chiave in camera per dormire. Di sognare, in modo ricorrente, di aprire la porta e trovarti a pezzi sullo zerbino. Mi sveglio fradicia di sudore. Non chiudo più occhio...».  A volte, dicono gli psicologi, la cura per scacciare i fantasmi sta nel raccontare ciò che si è vissuto. E così, da donna in fuga Maria si trasforma in narratrice: «Non mi resta allora che scrivere. Sono anni che penso di farlo, per lasciarti un testamento che ti spieghi le ragioni della nostra vita assurda. Non ci sono mai riuscita: avrei dovuto riaprire ferite sanguinanti, mai cicatrizzate, e non potevo permettermi il rischio di cadere in un baratro: avevo te da crescere...» I ricordi di famiglia, disseppelliti, diventano reperti preziosi per ricostruisce i rituali arcaici e le logiche moderne di una holding criminale che solo in Calabria conta 160 cosche e 6mila affiliati, ma che ha saputo farsi glocal e attecchire dappertutto, dal Canada all’Australia: «Raccontare è necessario. Spiegare dall’interno che cos’è quel mondo – scrive Maria –. Le menti malate che lo abitano, i meccanismi che lo governano. Per imparare a comprenderlo.  Perché non si possa far finta di non riconoscerlo ».Il risultato, in poco più di 200 pagine, è uno spaccato straordinario, sincero fino ad essere urticante, della vita di ieri di Maria Stefanelli e della sua rinascita, anche in nome di una bambina, che ora è una giovane donna: «Non dimentico che l’ho fatto per salvarmi la pelle e per risparmiare a te un destino di sofferenze inutili – scrive, rivolta a sua figlia –, per toglierti da quel mondo, per evitarti di sottostare a regole medievali, la tua vita in balia delle decisioni altrui». Ma il prezioso valore del libro sta soprattutto nell’accorato appello lanciato a quelle migliaia di donne che, come lei un tempo, vivono accanto a boss e affiliati. Alcune, coi mariti in galera, hanno ereditato il bastone del comando, ma la maggior parte vive schiacciata sotto il giogo della paura e dell’omertà. Maria si rivolge a tutte loro: «Con il tempo, il peso di quella scelta si è fatto sempre più schiacciante e per alleviarlo mi sono dovuta convincere che il mio era stato un contributo non solo di giustizia, ma anche di conoscenza delle logiche criminali dell’organizzazione calabrese. Un invito a rompere quei lacci...». Non c’è vuota ipocrisia né retorica, nelle parole di Maria: leggendo la sua storia, chi agogna di riscattare la propria libertà dai vincoli mafiosi, conoscerà esattamente qual è il prezzo da pagare. Ma al tempo stesso saprà che, per chi ha il coraggio di denunciare e di accettare le condizioni della protezione dello Stato, un’altra vita è davvero possibile.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: