martedì 31 maggio 2022
Dopo il primo sì alla Camera, già si discute sulle modalità di applicazione delle norme a favore di madri detenute e figli. Il nodo risorse legato e la necessità di accelerare sulle strutture
I bimbi della casa famiglia C.i.a.o. di Milano

I bimbi della casa famiglia C.i.a.o. di Milano

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Mai più bambini in carcere. Coi tempi dei voti parlamentari (non dovrebbero essere troppo lunghi ma richiedono ancora due passaggi, prima al Senato e poi di nuovo alla Camera) l’Italia presto dirà addio alla presenza, dietro le sbarre, dei piccoli nati con l’unica colpa d’avere una mamma detenuta. Venti, ad oggi, sparsi tra le strutture della Campania (che ne ospita quasi la metà), del Lazio, della Lombardia e del Piemonte: fosse anche uno soltanto, basterebbe per gettare il nostro Paese nell’abisso dell’inciviltà. Eppure, nonostante l’ingiustizia e la palese anticostituzionalità della pratica, e nonostante dal 2011 esista una legge che prevede «ove possibile» che i piccoli stiano con le loro madri ma non in carcere, le cose hanno continuato ad andare diversamente. Vite stritolate, calpestate, a volte persino sacrificate – fu il caso drammatico dell’infanticidio compiuto da una detenuta tedesca nel carcere di Rebibbia nel 2018 – in barba a tutti i diritti che all’infanzia andrebbero garantiti. Mai più, dunque, stabilisce il testo di legge approvato alla Camera nel pomeriggio di lunedì: la proposta di "Tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori", a prima firma del deputato dem Paolo Siani e nato nel solco dell’appello lanciato con forza dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, all’inizio del suo mandato, ha come principale obiettivo quello di superare la normativa in vigore – quella che istituiva gli Istituti di detenzione attenuata, i cosiddetti Icam – e di rendere obbligatoria la collocazione della madre e del bambino in case famiglia protette, dove i piccoli non abbiano alcuna percezione di vivere in carcere, possano crescere più sereni, frequentando i propri coetanei.

Tutto bene, sulla carta, non fosse che nel nostro Paese di case famiglia protette convenzionate con gli enti locali e attrezzate per ospitare questi bimbi con le loro mamme “speciali” ce ne sono al momento soltanto due: una a Milano, gestita dall’associazione C.i.a.o., l’altra a Roma, intitolata a Leda Colombini. Strutture nate dalla buona volontà di educatori e volontari impegnati in prima linea nella tutela dei più piccoli, che hanno galleggiato per anni grazie a raccolte fondi e donazioni di privati o, nei casi più fortunati, con le rette disposte di volta in volta dai decreti dei Tribunali dei minori. Il tutto al di fuori di protocolli istituzionali condivisi, cercando (e per fortuna spesso trovando) la collaborazione di provveditorati, enti locali, tribunali e dell’amministrazione penitenziaria. «Questa legge è senza’altro un passo avanti decisivo nell’ottica della tutela dei diritti dei minori – spiega Andrea Tollis, che con la moglie Elisabetta Fontana gestisce la casa C.i.a.o. di Milano, in cui al momento vivono tre mamme coi loro tre bimbi –, anche perché per la prima volta non si parla di possibilità di accogliere questi nuclei in casa famiglia, ma di un obbligo vero e proprio. Il punto è che una volta individuato il “dove” si deve pensare anche al “come” di questa accoglienza».

Per farla breve: le case famiglia non possono diventare piccole prigioni dorate dove garantire semplicemente l’esecuzione del trattamento penale, ma luoghi di elaborazione di un percorso di reinserimento sociale e ricostruzione personale «nell’ottica di una progettualità che deve andare oltre la pena e farsi carico di queste madri e dei loro bambini in maniera globale, sanando i fattori di disagio pregressi e consentendo loro un’autonomia nel futuro». Un percorso tutt’altro che semplice e che al C.i.a.o. – da dieci anni ormai – richiede la presenza costante di due psicoterapeute, una criminologa e un educatore, il sostegno al percorso scolastico dei bimbi ma anche alla loro presa in carico dal punto di vista sanitario, alle attività ricreative e ludiche fino alla gestione dei rapporti con le famiglie di origine e a volte anche di quello coi padri, spesso anche loro detenuti. «Senza contare le attività di recupero delle madri, il vero nodo della questione: donne spesso vittime di violenza, cresciute sulla strada, estranee alla maternità».

C’è da costruire, insomma: «Allargare la platea delle case famiglia attrezzate per questi percorsi è possibile, oltre che auspicabile, ma tenendo presente l’esperienza maturata in questi anni» continua Tollis. E vanno coinvolti i territori, i servizi sociali, «in percorsi che non possono iniziare a fine pena, come purtroppo indicato nel testo di legge all’esame del Parlamento, ma subito, dal momento in cui madri e bambini entrano nelle strutture». Anche perché dal punto di vista economico serve la copertura delle spese ordinarie attraverso lo strumento delle rette, che finora è mancata e che proprio all’intervento dei servizi si lega. I fondi, peraltro, già ci sarebbero: «Sono stati stanziati, nella cifra di 4 milioni e mezzo di euro per il triennio in corso, grazie a un emendamento alla legge di bilancio» ricorda Tollis. Per farli arrivare a destinazione, però, servono gli avvisi pubblici delle Regioni, al momento fermi al palo tranne che nel caso del Piemonte. La legge, allora, è davvero solo l’inizio.

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