martedì 18 settembre 2018
Tre terribili fatti di cronaca fanno suonare il campanello di allarme sul rapporto tra ragazzi e Internet. E sull'incapacità da parte degli adulti di leggerne i reali pericoli per poi intervenire
 Mai più ostaggi della Rete: «Ora uno scatto educativo»
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Andrea: Giù dal tetto dell’iper per scattarsi un selfie
Il padre di Andrea, 15 anni, ora chiede «verità e giustizia» per suo figlio, perché il tetto del centro commerciale di Milano da cui è caduto non aveva le grate per la sicurezza

Igor: la morte in cameretta. «Aiutate i vostri figli»
Della morte di Igor, soffocato mentre seguiva le regole di un gioco sul web, hanno parlato per primi i suoi genitori: «Fate il più possibile per capire i vostri figli» il loro appello

Cristiano: alla guida del muletto, «voleva un’emozione»
Aveva la passione del “parkour”, lo sport estremo che prevede balzi da cornicioni e palazzi (poi condivisi online), Cristiano. A 13 anni è morto schiacciato da un muletto

Tre terribili fatti di cronaca fanno suonare il campanello d’allarme sul rapporto tra i ragazzi e Internet. E sull'incapacità da parte degli adulti di leggerne i reali pericoli per poi intervenire. Cosa ne pensano psicologi, educatori e filosofi

Dunque, il web – i social network, lo smartphone, le chat, la connessione costante al mondo digitale – fa male? Può arrivare persino a uccidere? Sembra un incubo lo spaccato del mondo adolescenziale offerto negli ultimi giorni dalle notizie di cronaca: le storie di Igor (il 14enne morto soffocato per un gioco estremo seguito su Internet), di Andrea (caduto dal tetto del centro commerciale dove era salito, pare, per scattarsi un selfie) e di Cristiano (il 13enne appassionato di acrobazie morto schiacciato dal muletto rubato di notte in un cantiere edile, per provare un’emozione forte e condividerla) si intrecciano in una spirale in cui il minimo comune denominatore è indubbiamente la Rete, intesa come dimensione pubblica e “amplificata” di azione in cui i ragazzi sempre più spesso si trovano invischiati, disorientati, intrappolati. Come se in mezzo, tra quel mondo e il nostro, quello degli adulti, ci fosse un abisso oscuro e incomprensibile. Che adesso fa più che mai paura.

Che i genitori siano attori senza copione del presente, d'altronde, lo ha dimostrato in maniera commovente la lettera aperta scritta proprio dalla mamma e dal papà di Igor, qualche giorno fa, e affidata anch'essa alla Rete: «Lo avevamo avvertito di tutto, ma non è bastato. A questo proprio non avevamo pensato...». Poi l’appello agli altri, di genitori: «Fate il più possibile per far capire ai vostri figli che possono sempre parlare con voi, qualunque stupidata gli venga in mente di fare devono saper trovare in voi una sponda, una guida che li aiuti a capire se e quali rischi hanno valutato».

E qui la questione si allontana dal web, per tornare ad essere più che mai educativa. Dove si è interrotto, quel canale di comprensione e di ascolto che anche prima dell’avvento dei social qualificava come “sano” il rapporto tra genitori e figli? «Indubbiamente quello che riscontriamo come esperti incontrando ogni giorno dei genitori – spiega Alberto Pellai, psicoterapeuta dell’età evolutiva e autore di numerosi libri sul tema – è che a una tendenza ossessiva all’iperprotettività (semplificando: proteggiamo i nostri figli da tutto, li portiamo e li andiamo a prendere ovunque, evitiamo che affrontino il più possibile traumi e sconfitte) si è gradualmente affiancato un permissivismo eccessivo sull'uso degli strumenti digitali. Nel nostro “progetto di felicità” per i nostri figli, in cui fin da bambini devono essere attivi, eccitati, intrattenuti, contenti, ci siamo convinti che quella del mondo virtuale fosse una zona di presunta invulnerabilità fisica.

E lì, in Rete, li abbiamo lasciati liberi e soli, con quella che invece è la loro drammatica vulnerabilità interiore». Risultato: schermi ovunque in casa – quelli dei ragazzi e pure i nostri – con la connessione permanente che ha portato a una “disconnessione” nelle relazioni. Niente più sguardi, niente più parole, niente più contatto fisico. Non è teoria. Lo sa bene Luca Bernardo, direttore della Casa pediatrica Fatebenefratelli Sacco di Milano e responsabile di CoNaCy, il Coordinamento nazionale cyberbullismo presso il ministero dell’Istruzione. «Nel nostro centro, dove sempre più spesso arrivano non solo vittime di cyberbullismo ma anche del web in senso lato, con dipendenze e patologie anche gravi, la costante è la drammatica interruzione del ruolo educativo da parte dei genitori – spiega –. I genitori non si rendono conto di quello che accade o che è accaduto e sono alla ricerca disperata di strumenti». Nella struttura, non a caso, si riparte proprio dalla famiglia: «Lavoriamo sui rapporti, sull’ascolto, sulla comprensione, anche da parte di fratelli e sorelle».

Si tenta di ricostruire una connessione perduta, stavolta nella realtà. «Senza pretendere, si badi bene, che i genitori diventino medici o psicologi, nient’affatto – continua Bernardo –. Eppure i genitori devono tornare ad essere genitori: a guardare i propri figli e a capire quando di quei segnali bisogna parlare con qualcuno capace di interpretarli». Essere genitori, al tempo di Instagram. La sfida sembra impossibile, salvo poi scoprire che proprio sul profilo Instagram di un figlio – è il caso di Andrea, il ragazzo caduto dal centro commerciale nel Milanese – di foto lassù, sui tetti, a sfidare il vuoto, ce n’erano già: «Di fronte a questi fatti – e Giancarlo Frare parla prima come padre di 4 figli che come presidente dell’Associazione genitori scuole cattoliche (Agesc) – si resta paralizzati dall’angoscia. Perché la prima frase che si compone nella mente di un genitore è 'non sono stato in grado', 'non ci sono riuscito'». Il fallimento del progetto educativo è tanto drammatico quanto la mancanza di strumenti per evitarlo: «La verità è che non ne abbiamo, che nessuno ci insegna il mestiere di genitori e che nello spazio di pochi anni la differenza nel mondo là fuori è diventata a dir poco abissale».

Arrendersi? «Macché, io dico ora più che mai ai genitori di stare vicini ai figli, di comprenderli. Dobbiamo aumentare la nostra comprensione per evitare che i nostri ragazzi restino soli». Nella pratica significa ascoltare, per Frare. Per Bernardo, cogliere i segnali d’allarme e di cambiamento («penso al loro modo di vestire, all’igiene personale, agli amici, agli umori»); per Pellai, intervenire sui tempi della tecnologia, «per esempio dando ai ragazzi lo smartphone a partire dalla terza media, cioè molto più tardi di quanto avviene ora». C’è poi la via altrettanto coraggiosa, quella di provare ad addomesticarla la tecnologia, insegnando ai ragazzi «a postare, commentare, condividere senza spegnere il cervello – spiega il filosofo della comunicazione Bruno Mastroianni –. Non a caso è il titolo di un libro che ho scritto e il messaggio che reputo fondamentale in un mondo in cui la soluzione di “cancellare” Internet e i social sembra impossibile». La ricetta è quella dell’educazione quotidiana – «fatta alla scrivania di casa, perché no» – all'uso della dimensione pubblica che gli adolescenti hanno acquisito sul web «mostrando loro come poter condividere le proprie frasi o le proprie azioni con altre persone in modo facile e immediato richieda anche che queste frasi e queste azioni – spiega Mastroianni – abbiano un valore positivo, e un significato. “Pubblico” non può equivalere per loro soltanto a “esagerato”, “pericoloso”, “trasgressivo” ». E creare un’alternativa di senso, dentro quella dimensione, è dove si gioca tutta la questione educativa del nostro tempo.

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