mercoledì 28 gennaio 2015
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«Partirò il prima possibile. Non ho niente: confido nelle mie capacità, e nell’aiuto di Dio». Andrea scrive una lettera commovente allo sportello Caritas di Monaco di Baviera. Quattro figli, uno malato di cancro e già operato senza successo, il lavoro perduto per seguire le cure, la casa sigillata dagli ufficiali giudiziari, i sussidi inghiottiti dalla burocrazia. Nell’Europa senza confini, dove la libera mobilità tra Stati membri è una conquista indiscussa per tutti, l’emigrazione italiana sempre più spesso assume i contorni del dramma. Dimenticate scambio e circolazione di cervelli, promossi con programmi specifici, accompagnati da corsi di lingua e stage magari concordati tra governi e istituzioni: Erasmus e percorsi universitari a parte (in ogni caso di riferimento solo per gli under 25), dal nostro Paese si parte avviliti, se non disperati, in più della metà dei casi senza le informazioni necessarie, privi di un contratto di lavoro, con un inglese scolastico. E il numero di fuoriusciti – un record di 82mila nel 2013 secondo l’Istat, oltre 94mila secondo la Fondazione Migrantes che incrocia i dati con quelli del Viminale – dopo l’Inghilterra marcia esponenzialmente verso la ricca Germania.  Oltralpe, dove si arriva sempre più spesso in pullman, con le nuove compagnie low cost su asfalto che mietono guadagni milionari, gli italiani sono tornati ad essere di casa: 40mila in più negli ultimi 4 anni secondo l’Aire (l’anagrafe degli italiani all’estero), 10.520 nel 2013, un picco nel 2014 di 11.731 (+11,5%) per un totale di oltre 665mila connazionali ben distribuiti da Nord a Sud. E questo solo sulla carta: perché a registrare il proprio cambio di cittadinanza è – nella migliore delle ipotesi – solo la metà di chi se ne va via. Il record va alla vicina Monaco: 3mila arrivi solo l’anno scorso, a fronte delle poche centinaia del 2013. Ventitremila italiani su un milione e 400mila abitanti. «Un carico che non eravamo certo pronti a gestire», spiega Norma Mattarei, dirigente dell’Ufficio emigrazione Caritas. Tra loro c’è anche papà Andrea, dignità da vendere e quasi vent’anni di esperienza come operaio edile: «È quello che conta qui in Germania, e per fortuna è la caratteristica frequente di chi bussa alla nostra porta – continua la Mattarei –: una qualifica. L’unico neo è la lingua, parlata ancora da troppo pochi». La Caritas attiva subito corsi di tedesco gratuiti. Il resto lo fa la richiesta di personale: che in Germania, dove la disoccupazione supera di poco il 5% a livello nazionale (ma in alcune zone rasenta addirittura lo zero), è altissima. «Il problema vero resta la casa, soprattutto per chi arriva con la famiglia: tantissimi, in questi ultimi mesi. Gli affitti qui sono alle stelle e senza un contratto a tempo pieno è impossibile ottenere un alloggio». A Monaco da un paio d’anni si risponde all’emergenza italiana con gli ostelli e con i dormitori pubblici, che al posto dei senzatetto ospitano per lo più i nostri connazionali: «La soluzione, però, vale solo per l’inverno, quando il piano antifreddo permette di moltiplicare i posti. A marzo tutto finisce». Per fortuna ricominciare, in Germania, si può. Ingegneri, personale medico, maestre d’asilo: la preparazione degli italiani è apprezzata e ben accolta. «Dire che è facile sarebbe esagerato, ma vediamo moltissimi casi risolversi bene. Chi arriva qui è determinato, pronto a sacrifici. Se c’è questo spirito di solito lo spostamento dal-l’Italia si traduce in un successo». Più difficile per i bimbi (quasi 133mila in Germania, il Paese con il maggior numero di minori connaziona-li), che si misurano con un sistema d’istruzione profondamente diverso da quello italiano: «Il modello tedesco – spiega la Mattarei – prevede la permanenza per almeno due anni in una classe per stranieri, dove si dovrebbe imparare il tedesco. La verità è che in questo microcosmo a se stante diventa molto più difficile farlo, così come integrarsi con gli altri bambini. Finiscono per emergere i piccoli più dotati, mentre per gli altri si apre un percorso educativo “limitato” per così dire». Una realtà che andrebbe spiegata bene a chi decide di trasferirsi coi figli. Da chi? Il problema è sempre lo stesso, a Monaco come ad Amburgo, a Berlino come a Francoforte e a Stoccarda: «Manca una rete, un appoggio per gli italiani che decidono di emigrare. I nostri uffici sono presi letteralemente d’assalto, il lunedì mattina ho una coda di 30 persone fuori dalla porta», spiega la Mattarei. Nessuna coda, invece, al consolato.  Conferma tutto il responsabile nazionale della sezione Emigrazione e intergazione della Caritas tedesca, Roberto Alborino: «Qui c’è stata una svolta culturale sul tema dell’immigrazione: ne è un ottimo esempio il rapporto proficuo che si è instaurato ormai da qualche anno fra il ministero del Lavoro tedesco e i sindacati spagnoli. Programmi di formazione ad hoc e condivisi vengono frequentati e seguiti in Spagna, da chi è interessato a partire, in base a quelle che sono le esigenze delle aziende tedesche. La collaborazione permette a chi parte di integrarsi immediatamente e senza difficoltà, a chi accoglie di beneficiare di un valore aggiunto». Emigrazione “programmata”, un sogno realizzabile «se solo la partenza dei nostri italiani non fosse necessariamente vissuta, sia da chi parte che da chi resta, come un trauma, una ferita e una perdita – continua Alborino –. L’Europa dovrebbe essere vista come una risorsa: non sono soddisfatto nel mio Paese, ci provo in un altro. E le istituzioni dovrebbero lavorare in questo senso: promuovere concretamente la mobilità, rendersene protagoniste». Le lettere come quelle di Andrea continuano a raccontare una storia tutta diversa: «Non sopravvivo nel mio Paese, devo partire». «Non so a chi chiedere aiuto, voi siete le persone giuste?».
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