venerdì 24 novembre 2017
Gli autori della di violenze possono cambiare: ecco gli avamposti del recupero. L’esperienza di chi tenta la strada della presa in carico dei maltrattanti, bisogna intervenire anche sul mondo maschile
Viaggio nelle strutture che rieducano gli uomini
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Cambiare prospettiva. Cominciare anche a guardarla dall’altra parte, la violenza, nei panni di chi la commette. C’entrano, gli uomini. Eppure, anche in occasione di questo 25 novembre, soprattutto delle donne si parla: di quanti abusi subiscono, di quanto poco denunciano, del perché non lo fanno, dei centri che le aiutano. Tutto sacrosanto, e però da cambiare restano gli uomini.

Al Centro di ascolto uomini maltrattanti (Cam) di Firenze questo si tenta di fare, dal 2009. «Quell’anno furono in 6 a rivolgersi a noi, l’anno scorso sono stati 50» racconta Alessandra Pauncz, anima del progetto, alle spalle del Cam una decina d’anni di esperienza a fianco delle donne maltrattate. E oggi anche presidente di Relive, la rete italiana che riunisce 22 centri che attuano programmi per autori di violenza di genere, dal Cerchio degli uomini di Torino alla Famiglia materna di Rovereto fino alle strutture di Padova e Genova. Una realtà in espansione, tanto che a marzo prossimo l’associazione si riunirà nel primo convegno nazionale a Trento, con dati ed esperienze da raccontare. Perché gli uomini possono cambiare. «Ovviamente si tratta di un approccio parziale alla problematica, che non pretende di esaurire tutto il bisogno che le donne hanno di essere accolte e sostenute, e tuttavia io credo sia decisivo – spiega Pauncz –. Si apre la porta agli uomini, nei nostri centri (sedi del Cam hanno aperto a Roma, Ferrara, Crema, Olbia, Sassari, ndr), perché della violenza gli uomini sono responsabili e su questo bisogna focalizzare attenzione ». Non solo quella degli operatori impegnati agli sportelli di ascolto e nei gruppi di lavoro che si creano (il percorso di “presa in carico” dei maltrattanti proprio sulla dinamica di gruppo si fonda, e dura almeno un anno), «ma soprattutto quella della società e della politica: basta mettere sulle spalle delle donne tutto, la violenza, la denuncia, la protezione dei figli – continua Pauncz –. Gli uomini c’entrano».

Padri, mariti ma anche sempre più giovani

Se un uomo è responsabile, un uomo deve guardare la violenza che compie, capirla. Succede questo, al Cam, dove a fronte di un 30% di “drop out”, cioè di uomini che si rivolgono al centro una volta e poi scompaiono, l’altro 70% degli utenti si impegna in un percorso complesso di presa di coscienza «che già dopo due mesi sfocia nella fine della violenza fisica». È un risultato. Che si accompagna a un graduale abbassamento dell’età di chi si rivolge a questi centri. «Siamo arrivati a un 5% di studenti, una categoria che fino a qualche tempo fa non esisteva nemmeno nelle nostre statistiche». E questo non tanto perché si sia abbassata l’età in cui si comincia ad essere violenti (dato comunque drammaticamente reale) «quanto perché è cresciuta la consapevolezza del disvalore della violenza anche quando le relazioni non sono definitive come in età più adulta».

In sostanza, mentre prima ad accorgersi che qualcosa non andava in uno strattone, o in uno schiaffo, erano soprattutto mariti e padri (sono il 70% degli utenti del Cam), ora lo fanno anche i giovani, «in alcuni casi persino i minori». A insistere sul fronte del lavoro con gli uomini è anche il magistrato milanese Fabio Roia, già membro del Csm, dal 1991 impegnato sul fronte della violenza sulle donne: «È la Convenzione di Istanbul a prevedere l’attivazione di protocolli di intervento sugli uomini maltrattanti – spiega –: il problema è che nel nostro Paese manca un piano organico di applicazione di tali protocolli nella fase di esecuzione della pena». In sostanza, cioè, nelle carceri – dove comunque sono ancora troppo pochi gli uomini maltrattanti, visto che i dati sulle cause parlano di appena un 60% di condanne – non esiste nessun tipo di trattamento sugli autori di violenza, «col risultato che dalla detenzione escono incattiviti e il tasso di recidiva del reato, sulla stessa donna o su una nuova, è altissimo».

Il progetto nel carcere di Bollate

Un caso a parte, l’esperienza condotta dal criminologo Paolo Giulini all’interno del carcere milanese di Bollate sugli autori di reati sessuali: la sua équipe, prima in Italia, dal 2005 a oggi ha trattato 248 detenuti con solo 7 casi di recidiva. Giulini gestisce uno sportello anche all’interno di San Vittore e, fuori, il Presidio criminologico territoriale del Comune di Milano con ben 5 gruppi di lavoro: «È importante – spiega – che questo approccio sia più conosciuto e valorizzato, che gli uomini conoscano l’esistenza di queste strutture e che si cominci a lavorare anche su di loro».

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