mercoledì 1 marzo 2017
Le associazioni impegnate quotidianamente accanto ai disabili gravissimi: chiediamo rispetto e cure
L'urlo di chi lotta per la vita: «Ascolto e aiuto? Per noi»
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Fuori da clamori mediatici, ci sono tante persone e famiglie che assistono i loro cari in condizioni di estrema sofferenza o disabilità. E che – testimonia chi sta loro accanto – chiedono soprattutto di avere migliori cure, maggiore attenzione e comprensione da parte delle autorità pubbliche, rivendicando allo stesso tempo il rispetto della dignità della vita dei loro cari.

Lo attesta Francesco Napolitano, presidente dell’associazione Risveglio di Roma, che in Casa Iride ospita sette persone in stato vegetativo o di minima coscienza, mentre nel Centro Adelphi ne assiste in attività diurne 25 al giorno che sono uscite dagli stadi più gravi, hanno recuperato relazioni con l’ambiente, ma necessitano di essere assistite in una lunga e faticosa riabilitazione. «Invito a venire a vedere i nostri ospiti: mai in vent’anni abbiamo ricevuto richieste di farla finita o rimpianto per essere stati assistiti in chi ha superato lo stato vegetativo: prevale in tutti una vitalità prorompente ».

«La condivisione – osserva Napolitano – con un tipo di vita che certamente vorremmo più ordinaria, ci restituisce valori ed esperienze assolutamente uniche. Che ci fanno capire che l’ordinarietà della vita è qualcosa che ci costruiamo a tavolino». Un punto però è cruciale: il rispetto della dignità della vita di queste persone. «Non è un caso che quando ci fu la vicenda di Eluana Englaro le nostre famiglie abbiano manifestato davanti a Montecitorio per salvare la ragazza, perché si sentivano defraudate del criterio della dignità della vita. La domanda era: stiamo assistendo invano i nostri cari? Siamo pazzi a prenderci cura in modo totalizzante i nostri parenti? Dalla nostra esperienza possiamo dire di vedere certo la sofferenza, ma anche l’accettazione di situazioni che sappiamo essere più grandi di noi, ma che non tolgono il fatto che la vita viene prima di ogni altra cosa».

Alla Carta di San Pellegrino Terme, fa riferimento e rimanda Paolo Fogar, presidente della Federazione nazionale associazioni trauma cranico. Si tratta di un documento – aggiornato pochi mesi fa – redatto da una vasta galassia di associazioni per «tutelare la dignità, la libertà e i diritti delle persone in stato vegetativo e di minima coscienza e di gravi disabilità acquisite ». Tra i dieci punti – oltre a una netta presa di distanza da percorsi eutanasici – si chiede che tutte le persone in stato vegetativo o di minima coscienza abbiano garantito un «percorso di cura e assistenza» e sottolinea che «la famiglia ha il diritto di essere accompagnata, sostenuta e formata nel percorso di cura e partecipe nel progetto di vita».

Concorda Gian Pietro Salvi, non solo primario di riabilitazione neuromotoria ma anche presidente della Rete- Associazioni riunite per il trauma cranico e le gravi cerebrolesioni acquisite: «Le associazioni fanno un lavoro incredibile per aiutare le persone a vivere al meglio, assistendole sia dal punto di vista fisico sia psicologico sia economico. E in tanti anni non abbiamo mai avuto una richiesta “al contrario”, che non fosse per assistere e aiutare chi è nella prova». Caso mai, osserva, «c’è bisogno di maggiore assistenza sul territorio: una volta uscite dagli stadi più gravi e tornate a casa, queste persone hanno tante necessità, e le famiglie vanno sostenute nell’assistenza medica e nelle maggiori spese (garze, cerotti, disinfettanti, creme, per non parlare talvolta di badanti) che devono sostenere e che solo poche regioni aiutano a coprire».

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