mercoledì 30 marzo 2016
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I nuovi dettagli che emergono sul caso di Giulio Regeni non solo non cancellano i dubbi sulla versione (e sul perché di quella versione) fornita dalla polizia, ma alimentano altre domande. Nonostante la cautela espressa dal ministero dell’Interno e dalla procura di Giza, la polizia del distretto di Shobra al Khaima continua a sostenere che i colpevoli della morte di Regeni sono i componenti della banda sterminata dalle forze di sicurezza, che hanno ucciso cinque uomini, fornendo le generalità solo del presunto boss dei sequestri. Una versione con pochi appigli. Secondo il capitano Mohamed Refaat, i banditi erano responsabili di una rapina ai danni di un altro italiano, avvenuta il 15 febbraio. Inoltre il capobanda avrebbe consegnato alla sorella il borsone rosso con all’interno gli oggetti di Regeni, prima di essere ucciso nella sparatoria con la polizia. Ma la borsa rossa con lo stemma della nazionale italiana di calcio, secondo gli inquirenti italiani e secondo la famiglia e tutti gli altri testimoni vicini a Regeni, non apparteneva al ricercatore friulano. Non solo, la rapina all’altro italiano non sarebbe mai avvenuta, o almeno non risulta alcuna denuncia alla nostra ambasciata. Nuovi particolari emergono anche su tempi e modalità. La borsa rossa è stata trovata in casa di Rasha Saad Abdel Fatah, la sorella del bandito ucciso, durante il blitz delle forze speciali avvenuto intorno alle 11 della mattina di giovedì 24 marzo, circa un’ora dopo la sparatoria.  Tuttavia il ministero dell’Interno attende 13 ore, fino alle 23, prima di pubblicare le fotografie del passaporto di Regeni, nonostante i media locali avessero diffuso la notizia già all’ora di pranzo. Nonostante la portata del blitz, l’investigatore capo e i procuratori di Shobra al Khaima arrivano sul luogo della sparatoria tre ore dopo l’intervento delle forze speciali. Perché così tardi? Cosa è accaduto in quel frangente? Commentando l’operazione il capitano di polizia Mohamed Refaat ha detto che gli agenti hanno agito rispettando il protocollo: «I vetri della vettura erano oscurati e hanno iniziato loro a sparare per primi. La scelta in questo caso era essere uccisi, lasciarli scappare o aprire il fuoco». La banda usava «falsi distintivi per fermare le persone in strada ed estorcere loro denaro». Incluso «il ricercatore italiano Giulio Regeni e un altro ragazzo italiano (le cui iniziali sono D.C.) e molti altri stranieri provenienti da diverse nazioni». Secondo il capitano, questa ricostruzione è confermata dalle telecamere della 90ma strada del 'Quinto complesso' di Heliopolis, i cui obiettivi avrebbero ripreso l’estorsione ai danni dell’altro italiano. «Hanno fermato D.C. fingendosi membri della sicurezza specializzati in denaro pubblico – ha detto il capitano – e lo hanno trascinato a bordo di un microbus (lo stesso dove sono stati uccisi, ndr ). Gli hanno rubato 10 mila dollari minacciandolo con le armi». Al momento, però, mancano sia la conferma dell’italiano individuato come D.C., il quale incautamente se ne andava in giro con 10mila dollari in tasca, quanto le immagini delle telecamere citate dal poliziotto. Un altro dettaglio, però, non torna. «Una volta individuate, le vittime venivano percosse per consegnare carte di credito, bancomat e password», ha spiegato ancora Reefat. Secondo l’agente è possibile che Regeni abbia finto di non sapere l’arabo e di non capire le richieste dei rapitori per non essere costretto a consegnare il codice segreto del bancomat. «Lo hanno torturato per avere la password», ha ribadito il capitano Reefat. Ma se la banda tolta di mezzo dalla polizia era davvero specializzata nelle estorsioni agli stranieri, certamente i banditi si sarebbero fatti intendere anche in inglese e non solo in arabo.  Dettagli a parte c’è un’affermazione che fa dubitare non poco delle buone intenzioni della polizia egiziana. Per corroborare le sue ipotesi il capitano Reefaat se ne esce con una frase che sembra già il finale di un’inchiesta mai nata. A chi gli fa notare che le sevizie su Regeni non hanno niente a che vedere con una rapina finita male, il poliziotto risponde evocando «migliaia di casi di tortura anche più orribili di quelli di Regeni, tutti compiuti da civili e non dalla polizia».
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