martedì 18 gennaio 2011
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A Busto Arsizio, negli stabilimenti dell’Antonio Aspesi, la presa della Bastiglia si festeggia con due giorni di ritardo. «Dal 2009, ogni anno, il 16 luglio organizziamo un’assemblea aperta a tutti: imprenditori, lavoratori, clienti, fornitori, amici – racconta Roberto Belloli, ultimo erede dell’impresa di famiglia, specializzata nella produzione di filati artificiali e sintetici –. La prima volta un industriale di Varese annunciò ufficialmente la chiusura della sua azienda. Da solo, davanti a tutti. Fu una sorpresa e, in un certo senso, una liberazione per tutti».Per il tessile di questa provincia lombarda, messo in ginocchio dall’arrivo della Cina sui nostri mercati, quel momento ha rappresentato uno spartiacque tornato alla mente di molti, in questi giorni decisivi per l’approvazione del federalismo fiscale. Perché ha segnato l’ultimo atto della rivolta del Nord, da vent’anni avanguardia di tutte le proteste (e le richieste) della borghesia produttiva più ricca e influente del Paese. Una terra che, durante gli anni della costante egemonia del centrodestra e della Lega, non ha per nulla cancellato le ragioni del proprio malessere più profondo e adesso non si sente più rappresentata, né a destra né a sinistra. «Ora la parola d’ordine non è più "meno tasse", ma "più lavoro". È finita la distinzione tra il padrone e l’operaio: siamo tutti sulla stessa barca e la coperta si è fatta più corta».La sentenza di Belloli, leader dei "contadini del tessile", il movimento nato da quell’assemblea infuocata di Busto Arsizio, è solo la spia avanzata di un movimento che unisce piccoli produttori e maestranze, imprenditori e sindacalisti, settori storici della nostra manifattura e nuovi business. «Dopo l’avvento di Pechino, le filiere produttive non esistono più. Nel migliore dei casi, si finisce per sopravvivere, diminuendo produzioni, perdendo clienti e tagliando il personale» spiega, ricordando il peregrinare della sua azienda prima a Carpi, poi a Biella, quindi in Veneto e infine all’estero, in Spagna e Francia. «Viviamo di tante nicchie quante sono i clienti che ancora ci danno lavoro, ma c’è il rischio che queste nicchie si trasformino in loculi».Ad Arzignano, nel Vicentino, Mirko Balsemin sta provando a guidare la sua fabbrica di conceria fuori dalle secche della crisi. «Da una parte ha ragione Marchionne: senza la fabbrica non ci sono i lavoratori. Eppure – aggiunge – è vero anche il contrario: senza i lavoratori, la fabbrica è un corpo inutile». Ecco cosa sono diventati, negli anni della grande depressione economica, gli stabilimenti e le botteghe messe in piedi nel Nord Italia da chi ha aperto la partita Iva: trincee da cui si combatte tutti i giorni la battaglia per arrivare alla fine del mese, microcosmi in cui le relazioni che nascono non hanno più il timbro della subalternità. «Mi vergogno a dare 1.500 euro al mese ai miei dipendenti» osserva Belloli, ben sapendo che da altre parti quella cifra sarebbe un miraggio. «Ci sono lavoratori lasciati completamente a se stessi. Negli anni dell’isolamento, è cresciuta la distanza col mondo della politica mentre è aumentata la solidarietà tra le parti sociali» sottolinea Valeria Fedeli, vicesegretario generale della Filctem Cgil, che per un decennio ha seguito l’uragano abbattutosi sul made in Italy. La formula per sopravvivere sul territorio è quella dei patti produttivi che salvano l’occupazione e la filiera industriale. Sta funzionando? Qui il ragionamento socio-economico non basta per capire quanto sta accadendo sul terreno della rappresentanza. «La politica ha ancora troppo spazio nel nostro Paese» spiega Balsemin. «Una volta c’era il grasso che colava dal territorio. Oggi non c’è più nulla – riflette Belloli –. La verità è che il benessere non dipende più dalle risorse distribuite dalla pubblica amministrazione». Il Nord Italia che da tempo chiede autonomia fa sempre più fatica ad accettare una pubblica amministrazione inefficiente e finisce per dividersi anche sul modello federale. «La cartina di tornasole saranno i servizi offerti ai cittadini e alle imprese» fa notare Balsemin. «Il federalismo mi sembra una grande operazione commerciale, fatta da chi meglio di altri ha saputo cavalcare il malessere di questo territorio – fa eco Belloli –. Non mi pare però che l’uomo della strada abbia capito granché». Insomma, i «piccoli» produttori scaricano l’agenda di riforme di questo governo? Forse non ancora, ma certo identificano nei "poteri forti" il vero avversario da battere. Nel mirino c’è la grande industria, capace di mobilitarsi prima e meglio delle piccole e medie imprese. «Eppure sbaglierebbero se cercassero di rompere o, peggio ancora, se non accettassero le regole della rappresentanza» risponde la sindacalista della Cgil.Si torna così al punto di partenza: allo sfogo dei produttori del Varesotto, alle incognite che pesano sui distretti dell’Italia settentrionale, alla frattura sempre più larga che divide il mondo produttivo dalle istituzioni. «O si cambia per davvero o si muore» è il grido che si alza dalle enclave nordiste. Se occorrerà ancora alzare la voce, da queste parti sono pronti a farlo.
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