martedì 24 ottobre 2017
Il sistema delle Regioni ha creato anche un boom delle spese. I nodi: residuo fiscale, spesa regionalizzata, tasse locali. I lombardi perdono 5.600 euro, i veneti 2mila, ma i laziali quasi 4mila
A sinistra il governatore della Lombardia Maroni, a destra quello del Veneto Zaia

A sinistra il governatore della Lombardia Maroni, a destra quello del Veneto Zaia

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A 47 anni dalla loro istituzione, a 16 dalla riforma del Titolo V che le ha rafforzate e a quasi un anno dalla mancata "controriforma" che avrebbe dovuto limitarne i poteri, le Regioni italiane restano in cerca di autore. Al centro di spinte contrastanti e contraddittorie - devolution e riaccentramento, federalismo fiscale e tagli lineari imposti da Roma, policentrismo e confusione istituzionale - il sistema non ha trovato un suo equilibrio. Ecco alcuni nodi da sciogliere e qualche dato su cui riflettere.

Il residuo fiscale

Uno degli obiettivi delle Regioni che hanno promosso il referendum di domenica è quello di mantenere sul territorio una maggiore quota delle risorse raccolte attraverso le tasse. La differenza tra quanto si versa attraverso tutte le forme di imposizione fiscale e quanto si riceve sotto forma di servizi, investimenti, trasferimenti dallo Stato è chiamato residuo fiscale. È una grandezza non semplice da calcolare e sulla quale mancano dati ufficiali condivisi. Tuttavia è opinione comune che per entrambe le Regioni andate alle urne lo scarto sia negativo. Secondo i dati rielaborati da fonte Istat dal dirigente del Cnr Fabrizio Tuzi, i cittadini della Lombardia "perdono" in questo giro 5.600 euro pro capite, quelli del Veneto oltre 2.000 euro. Il club delle Regioni che incassano meno di quanto pagano è piuttosto ristretto e comprende anche il Lazio (3.670 euro), l’Emilia Romagna (3.300), il Piemonte (1.160) e la Toscana (800). Poi c’è la provincia autonoma di Bolzano, con poco meno di 700 euro pro capite. Le altre 13 regioni italiane e la Provincia di Trento hanno invece un residuo positivo. Friuli, Liguria e Marche di poche centinaia di euro. Mentre il surplus entrate-uscite supera i mille euro a testa in Umbria e Val d’Aosta, i 2.000 euro in Campania e nel Trentino, fino ad arrivare a oltre 4.300 euro per la Sardegna e a 5.500 per la Calabria.

Sono cifre che fotografano una situazione apparentemente iniqua, dove c’è un pezzo d’Italia che paga parte del conto per tutti. Il motivo è molto semplice e deriva dal fatto che dove c’è maggiore ricchezza il prelievo fiscale è più alto (progressivo per le imposte sul reddito), mentre una parte della spesa pubblica, quella sociale, si concentra dove c’è più bisogno. Senza nulla togliere agli sprechi e alle inefficienze amministrative locali, l’ampiezza del residuo fiscale è dunque prima di tutto un indice di diseguaglianza. Basti ricordare che in Lombardia il reddito medio di un lavoratore dipendente arriva a 40mila euro e in Calabria a 29mila e l’indice di povertà relativa e del 4,5 in Emilia Romagna e di oltre 30 punti nella stessa Calabria. Ma se calcolassimo il residuo fiscale tra i "quartieri alti" e quelli poveri di una qualunque città italiana il divario sarebbe forse maggiore di quello che si riscontra tra le Regioni.

La ricerca citata scompone i dati tra le entrate e le spese e consente un maggiore approfondimento. Gli incassi fiscali mostrano infatti una grande variabilità scendendo da Nord a Sud: dai quasi 18mila euro pro-capite di Bolzano e della Lombardia, fino ai 7.500 circa della Sicilia. Guardando invece al lato della spesa il quadro è più omogeneo, se si escludono le autonome Val d’Aosta, Trentino e Alto Adige, che hanno una spesa tra i 17 e i 18mila euro pro capite, nettamente più alta della media nazionale di circa 13mila. Per il resto le differenze sono contenute, ma complessivamente le regioni del Sud hanno livelli di "uscite" leggermente più bassi delle altre, in particolare la Campania, la Puglia (entrambe a poco più di 10mila euro) e la stessa Sicilia. Insomma il Mezzogiorno è sì beneficiato dalla redistribuzione del reddito ma in questa classifica resta relativamente sfavorito.

La spesa regionalizzata

Un altro indicatore arriva dalla Ragioneria generale dello Stato che misura quella parte del bilancio statale erogato direttamente nei territori. In questo caso le differenze sono eclatanti. Al top delle uscite pro-capite (dati 2015) ci sono gli abitanti delle province di Bolzano (8.900) e Trento (7.600 euro), con quasi il quadruplo di quello che ottiene un lombardo. Al quarto posto, dopo la Valle d’Aosta troviamo il Lazio con oltre 6mila euro pro capite. Dato che risente del fatto che a Roma hanno sede le istituzioni centrali e si paga un’ampia fetta degli stipendi pubblici. Poi ci sono le restanti regioni autonome (Sardegna, Sicilia, Friuli Venezia Giulia) seguite dalle altre del Mezzogiorno. La Lombardia è ultima a quota 2.450 euro circa, preceduta da Emilia (2.680) e Veneto (2.740). Non a caso sono le tre Regioni che, con il referendum o con trattativa diretta con lo Stato centrale, chiedono più autonomia.

Cosa accadrebbe se il residuo fiscale fosse ridotto o azzerato? La spesa pubblica potrebbe crescere (o le tasse calare) nelle zone più ricche mentre l’opposto accadrebbe al Sud. Con l’inevitabile conseguenza di allargare ancora di più il divario economico nel Paese e rendere probabilmente necessarie nuove politiche redistributive.
Va osservato che negli ultimi anni i trasferimenti di risorse hanno contenuto ma non ridotto il gap tra Nord e Sud. Durante la crisi (2008-2013) il Pil del Mezzogiorno si è ridotto del 2,3% annuo, quello italiano del 2%. I consumi pro capite segnano un -2,4% a fronte dell’1,8% nazionale. E anche la ripresa del Pil dal 2014 in poi è stata leggermente più debole nel Sud (+0,5% annuo) che nel Nord (+0,7%).
Ma un maggiore decentramento delle funzioni avvantaggerebbe chi lo propone? Il professor Paolo Balduzzi, docente di Scienza delle finanze all’Università Cattolica di Milano, non ne è convinto e ritiene che la campagna referendaria illuda i cittadini. Di recente ha spiegato che il residuo fiscale non ne risulterebbe intaccato perché, se lo Stato dovesse cedere alle Regioni competenze dirette su determinate materie, allo stesso tempo ridurrebbe i relativi trasferimenti verso quei territori. La Regione interessata potrebbe trarne qualche vantaggio finanziario solo se riuscisse a svolgere i nuovi compiti a un costo inferiore a quello statale. Gli spazi per ridurre la pressione fiscale (o aumentare la spesa) sarebbero dunque ben al di sotto delle decine di miliardi di cui si è parlato.


Il boom di spese e debito...

Al di là delle differenze territoriali e dei flussi delle spesa pubblica, il referendum ha riportato di attualità anche il tema dell’efficienza complessiva del sistema imperniato sulle Regioni. Resta aperta la questione se la moltiplicazione dei centri decisionali non abbia aumentato sprechi, doppioni e inefficienze, oltre a ingolfare di ricorsi l’attività amministrativa. Di sicuro dopo la riforma "federalista" del 2001 la spesa pubblica italiana ha registrato un sensibile aumento. Il debito, complice la crisi degli ultimi anni, è salito dal 108 al 133% del Pil. La spesa sanitaria, principale fonte di uscita delle Regioni è salita, da circa 75 ad oltre 110 miliardi di euro. Ma livello del Fondo sanitario non è deciso autonomamente dalle Regioni quanto dal governo centrale. Ed è sempre Roma che controlla, tanto che di fronte ai maxi disavanzi di diversi enti territoriali ha deciso di commissariarli.

... e quello delle tasse locali

Non è facile stabilire i diversi gradi di responsabilità di una situazione che, accanto all’esplodere della spesa ha portato al moltiplicarsi la tassazione locale. Secondo una ricerca di Cer-Confcommercio le imposte locali dal 1998 al 2014 sono aumentate del 72%, salendo fino 6,6% del Pil e al 43,5% del totale delle imposte tributarie. In crescita soprattutto le addizionali regionali e comunali all’imposta sul reddito. Poi è arrivata la crisi e lo Stato centrale ha progressivamente chiuso i rubinetti della spesa pubblica. I trasferimenti verso la periferia sono diminuiti segnando dal 2009 al 2014 un -23,2% E mentre la spesa corrente locale diminuiva solo dell’1,2%, a soffrire sono stati gli investimenti pubblici, con un crollo del 39%.

Il pendolo torna al centro

Dal 2015 si è registrata invece una prima riduzione del prelievo fiscale locale dovuto alla decisone di eliminare l’imposta sulla prima casa. Che era comunale non regionale. Resta invece forte il peso delle imposte dirette, le addizionali comunali e regionali. Nel corso di una recente audizione alla commissione parlamentare sul federalismo fiscale il professor Massimo Bordignon, ordinario di Scienza delle finanze alla cattolica di Milano, ha affermato che nonostante la nuova norma costituzionale del 2001, la decentralizzazione del sistema italiano non si è mai compiuta davvero. E con la crisi economica e le politiche di riequilibrio finanziario il pendolo è tornato verso il centro. Negli ultimi anni la quota della spesa degli enti periferici sul totale della spesa pubblica è calata e anche la disciplina dei costi standard imposta dalla spending review, che mira ad allineare le spese unitarie ai livelli più virtuosi, contribuisce a questo obiettivo. Dal 2012 è stato introdotto l’obbligo per le Regioni di sottoporre i propri bilanci al giudizio di parificazione della Corte dei conti. Poi è arrivato anche il vincolo del pareggio di bilancio, mentre ancora il governo centrale chiude il proprio in deficit. Intanto il debito delle regioni italiane (dati Bankitalia) è sceso di circa 9 miliardi tra il 2011 e il 2015, mentre quello nazionale ha proseguito la sua corsa.
Una serie di azioni che hanno ridotto i margini di autonomia finanziaria degli enti e che può spiegare come mai oggi alcune Regioni, quelle che hanno i conti più in ordine ma non possono fare investimenti, abbiano rialzato le bandiere autonomiste.

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