sabato 13 settembre 2014
​Senza una norma nazionale in molti casi si applica il fai da te ma non è sufficiente. (Giovanni Grasso)
Le mani delle lobby sulla politica
Un operoso ravvedimento di Marco Tarqunio  
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La parola «lobby» evoca in Italia poteri oscuri, traffici riservati e pratiche poco commendevoli. Ma non è così in altri Paesi, dove da tempo esistono leggi che regolamentano l’attività dei "portatori" di interesse e la rendono trasparente (e persino utile). Proprio la mancanza di provvedimenti specifici provoca, nel nostro Paese, la classica notte, dove tutte le vacche sono grigie. Nella quale, insomma, è quasi impossibile distinguere tra interessi leciti e attività al limite della legalità. Se una regolamentazione legislativa dell’attività di lobbying latita da troppi anni, ci sono casi in cui si prova a porre rimedio al problema, con esiti alterni.Mario Catania, quando era ministro dell’Agricoltura nel governo Monti, aveva stabilito di regolamentare i rapporti con i gruppi di interessi a livello ministeriale: «Non mi sfuggiva – spiega – la necessità di una norma a livello nazionale, ma intanto volevo dare il buon esempio». Il risultato fu, dopo aver vinto numerose resistenze dentro e fuori il ministero, che sul sito internet istituzionale veniva pubblicata l’agenda degli appuntamenti del ministro con i rappresentanti degli interessi. «Chi la prese particolarmente male – ricorda Catania – furono le associazioni di rappresentanza. Si sentivano paragonate alle aziende private, ritenendosi, anche a ragione, portatrici di interessi collettivi. Tuttavia la lista era un’operazione di trasparenza, non una gogna». Con la caduta del governo Monti l’agenda degli incontri del ministero dell’Agricoltura non è stata più aggiornata. L’ex ministro ora dice: «Serve attenzione non solo a livello centrale, ma soprattutto nelle Regioni e nei Comuni, perché è lì che ormai si concentrano interessi molto "concreti" e dove le lusinghe possono prendere la strada dell’illegalità». Enzo Iacopino, per lunghi anni presidente della Stampa Parlamentare, è ora a capo dell’Ordine Nazionale dei giornalisti. Nei Palazzi ne ha viste  di tutti i colori: «Ricordo – dice – il caos durante le elezioni del successore di Cossiga al Quirinale. Noi giornalisti avevamo contingentato gli accessi, ma Montecitorio straboccava di lobbisti. Ne parlai con il presidente della Camera Scalfaro e un minuto dopo una cinquantina di persone furono accompagnate alla porta. La cosa gli portò fortuna, perché Scalfaro fu di lì a poco eletto al Quirinale». Dopo quell’episodio, Iacopino propose profonde modifiche allo statuto della Stampa parlamentare, introducendo l’incompatibilità per i giornalisti parlamentari, che non possono avere contratti di consulenza o di collaborazione con aziende o con uomini politici. «Una volta – ricorda ancora  – sorprendemmo un giornalista che raccoglieva le firme per un’interrogazione parlamentare. Fu sospeso per lungo tempo. Norme così stringenti valgono però solo per i giornalisti parlamentari, per gli altri ci vorrebbe una legge». Il deputato-questore della Camera Paolo Fontanelli (Pd) respinge l’idea che Montecitorio «sia in perenne assedio da parte di moltitudini di lobbisti che vagano nel Palazzo». Certo, racconta, «i deputati possono fare entrare chi vogliono. Ma gli ospiti vanno ricevuti in una zona specifica e non possono girare liberamente per i corridoi della Commissioni o in Transatlantico». I lobbisti veri e propri «appartengono in genere alle partecipate pubbliche, chiedono l’accesso temporaneo a Montecitorio, ma gli è vietato l’ingresso dentro le Commissioni. E non sono certo un esercito. Il nostro regolamento è rigido – conclude – ma è chiaro che la questione non è solo quella degli accessi. Oggi con un tablet o un telefonino si possono far arrivare messaggi in tempo reale direttamente al deputato chiuso in Commissione. Serve una seria legge nazionale».
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