domenica 1 ottobre 2017
Dopo 24 anni il faccia a faccia tanto atteso dai genitori di Sergio Lana, il 20enne ucciso con altri due compagni mentre portavano aiuti, con il «comandante Paraga»
Augusto e Franca Lana in Bosnia

Augusto e Franca Lana in Bosnia

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«Mir i dobro. Pace e bene. Come stai?». Mamma Franca e papà Augusto hanno dovuto aspettare 24 anni per poter dire queste parole ad Hanefija Prijic. Per poter consegnare – di persona, volto a volto – con tutto il loro dolore, la loro richiesta di verità, la loro offerta di perdono, il loro appello alla conversione, all’uomo che per i giudici ha ordinato l’eccidio di Gornji Vakuf, in Bosnia. La strage nella quale ha trovato la morte il loro unico figlio: Sergio Lana. Vent’anni appena, quel 29 maggio 1993, quando lui e altri quattro volontari italiani che stavano portando aiuti alle popolazioni stremate dalla guerra, vennero sequestrati dai soldati di Prijc, il «comandante Paraga». Il carico venne requisito. E tre di loro furono uccisi: Fabio Moreni, 39 anni, imprenditore di Cremona impegnato nella solidarietà; Guido Puletti, stessa età, giornalista originario dell’Argentina, dove aveva conosciuto il carcere e le torture del regime, prima di approdare a Brescia; e Sergio, il più giovane del gruppo, educato in famiglia al Vangelo della carità, al quinto viaggio a portare aiuti nell’ex Jugoslavia, il primo senza papà Augusto. Gli altri due volontari, Agostino Zanotti e Cristian Penocchio, riuscirono a fuggire e salvarsi.


Per mettere al mondo un figlio ci vogliono nove mesi. Una frazione di secondo perché una raffica di kalashnikov te lo porti via. E 24 anni di attesa alimentata nella preghiera e nella carità, per poter offrire, a chi consegnò Sergio alla morte, parole e gesti di vita nuova. Preghiera e carità: così Franca e Augusto, con gli amici del gruppo «Volontari Caritas» di Ghedi (Brescia), hanno resistito alla rabbia, al rancore, alla disperazione. Poco dopo la strage, mamma Franca ebbe la forza di rivolgere una lettera agli assassini, tradotta e diffusa nella Bosnia in guerra: «Vi ho scritto per dirvi che non provo rancore né odio verso chi li ha uccisi, ma che io li perdono».

Da allora hanno coltivato, con un’inesausta domanda di giustizia e di verità sulle cause e le dinamiche dell’eccidio, la speranza di incontrare gli assassini. «Non per salvarli o condannarli, ma per spiegare loro chi era Sergio, e offrire un perdono che possa aiutare il loro cuore a guarire», racconta Franca. Nel 2013 sono andati anche a Gornij Vakuf. Invano.


Ebbene: l’incontro che per 24 anni è parso impossibile, è accaduto. Il primo colpo di scena: l’arresto di «Paraga» all’aeroporto di Dortmund, in Germania, il 28 ottobre 2015. Poi l’estradizione in Italia. E il processo a Brescia. Che in primo grado l’ha condannato all’ergastolo, mentre venerdì, in appello, gli hanno dato vent’anni. «Venerdì 29 settembre, Festa dei santi arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele, che ho pregato tanto in questi giorni, come continuo a pregare Sergio», sorride Franca, che udienza dopo udienza è riuscita ad 'agganciare' Prijic con lo sguardo, a farsi riconoscere, a scambiare gesti di saluto. Parole mai, però, fino a venerdì. Quando in una pausa dell’udienza, in tarda mattinata, con l’aula che si era svuotata, lei e Augusto si sono potuti avvicinare alla gabbia.

«Mir i dobro. Come stai?», hanno esordito. «Sono molto dispiaciuto per la morte di vostro figlio, ma vi assicuro che non ho picchiato o ucciso nessuno. Da questo processo stanno uscendo tante falsità», ha risposto Prijic con l’aiuto dell’interprete. «Si è detto disponibile e lieto di incontrarci, quando e come la condizione di carcerato lo renderà possibile, e di ricevere da noi il regalo di un libro, scritto da una veggente di Medjugorje, dove siamo stati tante volte pellegrini – dice Franca, emozionatissima –. Ha anche detto di aver letto con grande trepidazione una lettera che gli ho mandato di recente».

«Il nostro Sergio – gli ha scritto Franca – aveva questi sentimenti nel suo cuore: aiutare chi aveva bisogno, portare un sorriso e una parola di conforto a chi stava soffrendo, senza distinzioni. Era giovane: vent’anni, bello, forte, tanta voglia di vivere. Ora dal Paradiso Sergio – perché così è – mi dona la forza di continuare ciò che lui ha iniziato. La Vergine Maria Regina della Pace ci chiede di essere apostoli della pace. Di portare amore e pace ai cuori che non conoscono l’amore di Dio. Ogni giorno al mio Sergio, pregando, chiedo due cose: di poter parlare con lei, signor Hanefija, faccia a faccia; che il suo cuore si apra all’amore di Dio – che voi chiamate Allah – che dona amore e pace, così lei, al ritorno nel suo Paese, possa essere uomo capace di portare amore e pace, là dove non c’è amore e pace. Signor Hanefija, io desidero solo questo e mi basta. Mir i dobro».

La prima preghiera è stata esaudita. E da venerdì, quelle parole non sono più solo sulla carta. Sono affiorate alla bocca di Franca e Augusto, dopo un viaggio di 24 anni, dopo un’ostinata gestazione di speranza, arrivando finalmente all’orecchio di Prijic. «Preghiamo perché arrivino al suo cuore. Solo questo chiediamo – sospira Franca – . A sera, subito dopo il verdetto, raggiante, ha stretto con forza le nostre mani nelle sue, poi si è portato la mano sul cuore. E si è inchinato davanti a noi».

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