sabato 11 novembre 2017
Il centro Astalli: dopo i 50 morti, quanti ancora? Il viceministro degli Esteri, Mario Giro: da Tripoli azioni deplorevoli, da loro pretendere di più. Il volontario: «Ho dovuto scegliere chi salvare»
Sfuggire ai marinai libici o morire: l'orribile lotteria dei salvataggi
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«Non era mai accaduto prima», assicurano fonti della Marina militare italiana impegnate nel Mediterraneo. Non era mai successo che i salvataggi diventassero una lotteria. Non solo tra il sopravvivere o l’affogare, ma tra il respingimento nell’inferno libico o la fuga verso l’Europa.
Il 6 novembre mentre la motovedetta libica si allontanava inspiegabilmente con i motori avanti tutta, come dovendo inseguire il fantasma di un vascello pirata, la scia della nave militare si lasciava dietro una mezza dozzina di cadaveri ripescati dai volontari a bordo della Sea Watch e almeno 45 dispersi. Una manovra ancora tutta da capire, mentre un elicottero militare italiano prima con il bon-ton che si deve nelle comunicazioni con militari di altri Paesi e poi con tono assertivo chiedeva: «Per favore, fermate i motori». Per poi gridare via radio: «Fermatevi adesso, adesso, adesso». Sul lato destro della motovedetta un migrante era rimasto impigliato alla scaletta. Le immagini girate da Sea Watch sono drammatiche. Con il pilota del velivolo italiano che d’improvviso punta in picchiata verso la prora della motovedetta, mentre via radio viene ripetutamente implorato uno «stop» che resta inascoltato. Appena i libici spingono di nuovo la manetta al massimo, del migrante non c’è più traccia, probabilmente annegato, trascinato sotto la chiglia e spinto giù dalle ondate. Poco prima un altro uomo, vedendo la moglie tra le braccia dei soccorritori di Sea Watch, ha cercato di sottrarsi ai libici per raggiungere la donna. Anche di lui l’ultima immagine che resta è quella di un corpo che non riemerge più.


«Un episodio deplorevole, che non deve ripetersi e che è espressione di quello che non vogliamo», ha commentato il viceministro degli Esteri Mario Giro. «Contendersi i migranti per poi provocare la loro morte non va bene. I libici devono essere molto più umani coi migranti, che naturalmente tentano di andare in Europa, ma il coordinamento con le ong deve essere di tipo diverso». L’Italia ha scelto di sostenere la Guardia costiera libica, con equipaggiamento e addestramento. Con loro «abbiamo un dialogo permanente e continuo», dice Giro che assicura: «Parleremo di questi problemi. Per loro è una questione di sovranità. Ma sappiamo benissimo che abbiamo a che fare con uno Stato e un governo molto fragili».
La dinamica potrebbe venire accertata quando, dopo avere visionato le immagini, una procura italiana dovesse decidersi ad aprire un’inchiesta. Sul posto, infatti, si era recato un elicottero militare del nostro Paese e questo potrebbe consentire l’avvio di un’indagine. La polizia di Ragusa ha raccolto numerose testimonianze ma non è stato ascoltato l'unico volontario italiano, Gennaro Giudetti, membro del team di soccorso della Sea Watch. Nel corso di una intervista a Radio Radicale Giudetti ha raccontato di avere assistito a una vera strage. E nel parapiglia in acqua, a pochi metri dalla motovedetta libica, «ho dovuto scegliere chi salvare e chi lasciare affogare. Non è giusto», ha detto il 26enne già tornato nel Canale di Sicilia dove sono riprese le traversate dei migranti.



«Per quanto tempo si potrà continuare a guardare con crescente indifferenza e assuefazione alla morte di innocenti?», domanda padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli. Il servizio dei Gesuiti per i rifugiati, esprime «profondo cordoglio e indignazione» per la morte dei 50 migranti «avvenuta incredibilmente durante le operazioni di salvataggio in mare. Ormai la morte di uomini, donne o persino bambini non scuote più le anestetizzate coscienze europee. L’ecatombe che si consuma ogni giorno nel Mediterraneo è di fatto derubricata a mero effetto collaterale di politiche di contenimento dei flussi».
Tanto più che la guardia costiera libica e le autorità libiche «non sono interlocutori affidabili, né tanto meno hanno la possibilità o la volontà di effettuare operazioni di ricerca e salvataggio con le attrezzature fornite dall’Italia», denuncia l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), secondo cui «occorre certamente ricordare le responsabilità della Libia in quanto occorso. Al contempo, tuttavia, occorre sottolineare la responsabilità dell’Italia e dell’Unione europea per quanto avvenuto il 6 novembre o in occasioni similari, perché tali eventi si generano solo grazie alla delega delle attività di respingimento da loro fornita alla Libia».

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