sabato 12 dicembre 2020
L’armatore e la via del processo: solo oggi sapremo se potranno essere giudicati da un Tribunale
I familiari dei 18 pescatori sequestrati in Libia durante la manifestazione di protesta del 10 dicembre

I familiari dei 18 pescatori sequestrati in Libia durante la manifestazione di protesta del 10 dicembre - Ansa

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Nell’intricata e lunga vicenda dei 18 pescatori mazaresi da 103 giorni nelle mani dell’esercito di Haftar in Libia, c’è un ulteriore elemento di novità da registrare. Ed è la trattativa parallela a quella condotta in tutto silenzio dallo Stato, che l’armatore dell’"Antartide", Leonardo Gancitano, ha avviato affidandosi all’avvocato piemontese Carola Matta e a un collega di Bengasi per la "co-difesa" internazionale. L’annuncio è stato fatto dallo stesso armatore davanti i familiari in sit-in permanente nell’aula consiliare del Comune di Mazara del Vallo.

Oltre i confini nazionali, intanto, la vicenda dei pescatori è finita addirittura a Bruxelles. L’Unione Europea ha lanciato ieri un appello nelle conclusioni adottate dal Consiglio Europeo, affinché le autorità libiche «rilascino immediatamente i pescatori italiani trattenuti da settembre senza che sia stata avviata alcuna procedura legale» nei loro confronti.

La via giudiziaria

«Una scelta fatta per disperazione» dice l’armatore che da più di tre mesi ha fermi in Libia il suo motopeschereccio e gli uomini del suo equipaggio. Una via da percorrere per un risultato del tutto sconosciuto, perché – e di questo sono convinti l’avvocato Matta e lo stesso armatore – la controparte è un’autorità non riconosciuta (ossia l’esercito di Khalifa Haftar) e la questione dovrebbe essere affrontata davanti a un Tribunale militare. Dunque un percorso giudiziario che dovrebbe aprirsi con una prima udienza, che però non è ancora ufficialmente fissata. «Soltanto domani (oggi per chi legge, ndr) avremo notizie più certe» ha detto l’avvocato Matta. Davanti al Tribunale i marittimi dell’"Antartide" dovranno rispondere di pesca illegale nelle acque nazionali libiche.

È questa l’accusa del generale che, tramite gli uomini del suo esercito, il 1° settembre scorso ha fermato i motopescherecci "Antartide" e il "Medinea" coi loro equipaggi a circa 40 miglia a nord di Bengasi, per condurli sulla costa libica. In questa intricata vicenda c’è in ballo la vita di 18 marittimi che solo due volte e per pochissimi minuti hanno potuto sentire telefonicamente i propri parenti in Sicilia. Ma c’è anche il silenzio assordante del governo che, tramite il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha sempre detto: «Stiamo lavorando». A Mazara del Vallo i familiari sperano che prima di Natale sia possibile riabbracciare i propri cari.

Il caso della nave turca

La notizia di giovedì sulla liberazione della nave turca "Mabrouka", dopo pochi giorni dal fermo da parte dei militari della Libyan National Army del generale Haftar, ha scatenato una forte protesta, finita anche sotto casa dei genitori del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (che è originario proprio di Mazara del Vallo). «Questi politici devono dimettersi – ha detto Giuseppe Giacalone, papà di Giacomo, uno dei marittimi sequestrati –. È inaccettabile che la nave turca sia stata presto liberata e che i nostri figli siano ancora rinchiusi in Libia senza un motivo». «Ora diciamo basta: è ora che chi di dovere intervenga, anche con corpi speciali, affinché i pescatori possano fare rientro nelle loro famiglie» aveva detto qualche giorno addietro il vescovo di Mazara del Vallo, monsignor Domenico Mogavero. Giovedì pomeriggio il prelato è tornato a incontrare i familiari in aula consiliare. E lo farà ancora oggi pomeriggio insieme al sindaco della città Salvatore Quinci, «perché i parenti hanno bisogno di conforto e d’aiuto», mentre la diocesi sta sostenendo le famiglie pagando le utenze domestiche, gli studi ai figli e i beni di prima necessità ai bambini.

Le rassicurazioni del governo non bastano più. I familiari non ci stanno al silenzio della Farnesina e si dicono pronti a tornare a protestare a Roma. Compresi i parenti dei pescatori senegalesi, tunisini e indonesiani, ai quali, in questi lunghissimi 103 giorni di sequestro, non è stato concesso di poter sentire al telefono i propri cari in Libia. Un lato oscuro di un’intricata vicenda che è davvero più complessa di quella che si pensasse in un primo momento. «In altri tempi abbiamo tollerato episodi simili che si sono conclusi in tempi molto più ravvicinati. Adesso diciamo che è stata superata ogni misura» ha commentato monsignor Mogavero.

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