giovedì 13 febbraio 2014
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Io chiedo chiarezza e penso che la chiedano i cittadini, che vogliono sapere che cosa succede alla luce del sole. Le dimissioni non si danno per dicerie e manovre di palazzo. Ognuno deve pronunciarsi e dire che cosa vuole, specie chi vuole venire al posto mio...». A testa alta, davanti ai cronisti e alle telecamere che affollano la Sala dei galeoni di Palazzo Chigi, il premier Enrico Letta ribadisce che il braccio di ferro col segretario del Pd Matteo Renzi non ha ancora un perdente designato. Sono le 18.15 e la conferenza stampa per presentare «Impegno Italia» è iniziata da poco. Nei retroscena dei quotidiani, da giorni Palazzo Chigi sembra Fort Alamo, ma Letta fa capire subito che, se dovrà fare la fine di Davy Crockett, sarà un percorso lineare (la Direzione del Pd di oggi e poi, eventualmente, un colloquio col capo dello Stato e un passaggio alle Camere, dirà più tardi il suo entourage e non un pressing sotterraneo a determinarlo: «Un esecutivo cade quando c’è l’evidenza istituzionale – rimarca –. E gli unici governi possono nascere in Parlamento, il mio è nato così». Preoccupato? «Sono sereno, anzi "zen"», afferma. Di attacchi, osserva, in dieci mesi ne ha già affrontati parecchi: «Ho governato in condizioni difficilissime. Se dovessi dare un titolo alle mie vicende sarebbe: ogni giorno come se fosse l’ultimo...». Sul faccia a faccia mattutino con Matteo Renzi, è lapidario: «È stato, come dite voi, un incontro "franco e..." in cui ognuno ha molto sinceramente fatto valutazioni. Quando si parla è sempre positivo...». Un modo elegante per confermare come entrambi siano rimasti della propria idea. Così nel pomeriggio il pacato Enrico ha fatto la sua mossa, annunciando il piano di programma a lungo rimandato: «Tardi? È perché rispetto regole e impegni. Il Pd ha chiesto di votare prima la legge elettorale. E io l’ho fatto perché sono del Pd». Sul piatto, il premier mette le 57 pagine del piano di programma e soprattutto i «30 miliardi di euro» che il governo punta a reperire tra il 2014 e il 2015, per dedicarli in gran parte al taglio del cuneo fiscale. Nessun termine temporale dunque: «Non metto una data. La scadenza è legata alle riforme su emergenza economica-finanziaria e sull’impasse  istituzionale». Se si va avanti, non ci vorrà un rimpasto, ma un Letta bis: «L’aggiustamento non è sufficiente. Il governo era nato con Berlusconi, con Scelta Civica unita e senza Matteo Renzi segretario del Pd...». Al suo partito, il premier chiede cautela: «È un errore incasinarci sulle nostre vicende. La crisi va gestita facendo attenzione alla cristalleria». Niente elefanti, che sfascino ciò che di buono si è fatto finora: «Il mio è un governo di servizio al Paese. E sono orgoglioso del fatto che abbiamo preso il timone col segno "meno" e oggi l’Italia ha il segno più. È una crescita piccola, ma fondamentale come indicazione di marcia per il futuro». Qualcuno prova a sollecitarlo sul ruolo giocato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ma il premier non abbocca: «Ringrazio il capo dello Stato e ho massima fiducia in lui. Il Paese gli deve molto e questa legislatura esiste grazie al suo sacrificio...». Ora il boccino resta in mano al Pd. E prima di lasciare la Sala dei galeoni, Letta lo ribadisce: «Tutto deve avvenire in campo aperto, la discussione si deve spostare sui contenuti. Non voglio prestarmi ai personalismi e penso che non voglia farlo anche Renzi». Per il momento il premier ha battuto un colpo. Ora tocca al segretario. A chi glielo rammenta, Letta risponde con la frase celebre di Via col Vento: «Domani è un altro giorno». Forse senza ricordare che nel film, dopo quella battuta, partivano i titoli di coda.
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