martedì 26 maggio 2015
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Ancora per poche settimane (fino a luglio) Enrico Letta sarà un deputato del Parlamento italiano. Ma la sua testa è già altrove, ai grandi temi europei che da settembre insegnerà ai giovani nel suo nuovo incarico di direttore della scuola di affari internazionali di Sciences Po, a Parigi. Ed è più in questa veste, lontano dalle "beghe" della politica di casa (e in "marcia" verso Atene, dov’è arrivato ieri sera per un ciclo di conferenze), che l’ex premier riflette - e con non poca preoccupazione - sugli esiti delle elezioni amministrative in Spagna.Sorpreso di questo voto?No. Sono diversi mesi che il vento soffiava nelle vele di questi due movimenti, Podemos e Ciudadanos.Cosa ci dicono le elezioni spagnole?È un messaggio fortissimo. Se non lo avessimo ancora capito, in molti Paesi europei il segnale dell’elettorato è ormai di rottura definitiva. Bisogna tenerne conto e mettere in campo politiche diverse, visto che con la continuità non si va da nessuna parte. Qui è in questione il ruolo della politica in quanto tale.Addirittura?C’è una riflessione da fare. Queste spagnole sono due formazioni anti-partiti, che rifiutano la politica tradizionale. La loro ennesima conferma è un qualcosa che rappresenta la fine di un’era politica, quella dei partiti strutturati, con meccanismi gerarchici e vecchie sigle, nel segno del mainstream europeo.Vuole dire che i partiti, anche da noi, devono andare verso una loro scomposizione e ricomposizione?È così. Bisogna cambiare contenitori, e anche i messaggi. Il loro successo ci fa capire che sono richieste novità, sul fronte interno ma ancor più su quello europeo, dove serve un approccio più attivo, non basato sull’inerzia. Non si può essere europeisti solo perché si è sempre declinata la triade De Gasperi-Adenauer-Schuman. Serve una completa rivoluzione della questione europea.Che caratteristiche vede in queste nuove formazioni?Lo schema-chiave è l’utilizzo di Internet. Sono le forze che più di tutte hanno saputo utilizzare le nuove tecnologie per il processo di proselitismo, specie fra i giovani, e per le discussioni tematiche. In questo hanno un’assonanza con il M5S italiano: non tanto a livello programmatico, quanto nell’indicare l’esigenza di una riorganizzazione delle coordinate spazio-temporali della politica.La nascita di questi movimenti dipende, anche in Italia, dagli errori dei partiti classici?Da noi - anche io personalmente - abbiamo sottovalutato la portata di quel 25% di Cinque Stelle alle politiche del 2013. Ancora oggi è l’unico partito dato in crescita, per le regionali di domenica. Questo per il loro carattere di novità e perché, pur avendo tutto sommato combinato poco in Parlamento in questi due anni, rimangono fuori dagli scandali che colpiscono gli altri: un tema che resta forte per chi va cercando un voto diverso, "di pulizia". Ci si è fatti troppa forza del fatto che M5S ha voluto mettere in freezer i suoi voti parlamentari, e questo ha finito per l’essere un grande alibi. Che fa il paio con il crescere dell’astensione, che temo sarà molto alta anche alle prossime Regionali. Il risultato è che chi viene eletto al governo lo è oggi con una legittimazione bassissima, e questo pone un problema notevole, su cui si dovrebbe riflettere di più.A parte la Rete, c’è un filo rosso che lega tutti questi partiti, inclusa Syriza in Grecia?Sicuramente. Non è certo un caso che queste formazioni di successo siano maturate in quei Paesi del Sud Europa dove la disoccupazione giovanile è oltre il 40%. La crisi dell’euro ha generato una bomba sociale che ora è diventata anche politica, attraverso il rifiuto dei giovani alla politica "tradizionale". Il mio futuro impegno per i giovani, a Parigi, è figlio proprio di questa riflessione.Si torna sempre al punto: a sfondare sono i partiti anti-austerity?Questi partiti - e forse anche la vittoria della destra di Duda, in Polonia - sono certamente frutto in parte della crisi. Che però si è avuta, torno a dirlo, perché c’è stata troppo poca Europa, non perché ce n’è stata troppa. È la "poca" Europa che ha fatto rispondere alla crisi in modo sbagliato. Qui c’è peraltro un’annotazione interessante da fare: proprio nelle elezioni europee, un anno fa, i movimenti populisti sono stati più marginali, ha retto quindi un’intelaiatura più classica rispetto a questi focolai che evidentemente trovano il loro ambiente più favorevole nei contesti nazionali e localistici.Però la Ue continua a non cambiar passo, come dimostra il caso Grecia.Il timore per un’eventuale uscita della Grecia dall’euro, la cosiddetta "Grexit", comincia a essere molto forte. E ciò avrebbe un impatto devastante sui nostri barlumi di ripresa. L’Italia rischia moltissimo, perché abbiamo 40 miliardi di finanziamenti dati ad Atene, ma ancor più per gli effetti che produrrebbe l’inevitabile risalita dei tassi d’interesse. Diciamo però che ci sono responsabilità anche del governo Tsipras, e in particolare del ministro delle Finanze Varoufakis: non possono far saltare il principio che vuole che i debiti si pagano e, inoltre, devono collaborare di più per il varo di quelle riforme interne che sarebbero necessarie.Anche loro non vogliono certe riforme perché rispondono a un voto popolare, no?Ma gli elettori in fondo hanno chiesto loro in primo luogo di risolvere il problema con la Ue. Hanno dei margini di libertà su quali riforme fare: li usino, purché si muovano, però.
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