martedì 11 giugno 2013
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Stavolta è più difficile trovare una chiave di lettura che metta insieme gli interessi del Pd con quelli del Pdl. Enrico Letta, nel nome delle larghe intese, ci prova comunque, attingendo al meglio delle sue capacità diplomatiche: «Il risultato va valutato nel complesso, tra primo turno, secondo e voto siciliano», ed è un risultato che «rafforza lo schema delle larghe intese e mi spinge e ci spinge a lavorare di più». Diversamente da Epifani e da altri compagni di partito, cerca in tutti i modi di non mettere il dito nella piaga di un Pdl in difficoltà. Anche ai suoi uomini consegna un profilo di comunicazione bassissimo: «Il presidente si riferisce all’evidente calo di M5S, al ritorno di un confronto bipolare. Per lui quello con il Pdl non è un braccio di ferro né una partita a scacchi, questo governo serve al Paese e va preservato dalle insidie del giorno dopo giorno», dicono da Palazzo Chigi. E proprio seguendo questo filo logico Letta, nei commenti ufficiali, sottolinea il dato dell’astensionismo alto, «un segnale allarmante sul quale serve una riflessione». Come se Pd e Pdl fossero dalla stessa parte della barricata per restituire credibilità alla politica. Non è un caso se il premier delle larghe intese ha telefonato sia al vincitore Ignazio Marino sia allo sconfitto Gianni Alemanno.Ma Letta non può non vedere le insidie che si nascondono dietro questo voto. Berlusconi, è vero, ha promesso di non legare le sue vicende processuali e personali alla vita del governo (e il premier lo rimarca, ricordando che «siamo legati ai risultati e non alle sentenze»). Ma è altrettanto netto, il Cav, quando dice che se non vedrà attuarsi le misure economiche indicate dal programma - leggasi Iva e Imu - staccherà la spina. La pressione dunque sale.Allo stesso tempo, però, Letta vede nella vittoria del Pd in molti capoluoghi un elemento che radica il suo esecutivo. In qualche modo, gli consegna più potere contrattuale, come con meno prudenza ha detto il suo segretario Epifani. Soprattutto, Letta sa che il Pdl ora ha meno strade davanti, e che l’esecutivo delle larghe intese è ancora di più per gli azzurri un’ancora di salvezza. Non è certo per mera cortesia istituzionale che annuncia, a ottobre, un viaggio a Dublino in vista della presidenza di turno Ue che toccherà all’Italia a luglio 2014. È un augurio di lunga vita.Che le amministrative non siano però un passaggio indolore lo dimostra anche un’intervista del vicepremier Angelino Alfano al Foglio. Il segretario Pdl sin dall’inizio ha stretto un patto di ferro con il presidente del Consiglio, ma ieri si è fatto sentire con i primi velati messaggi di insoddisfazione. Il ministro dell’Interno, commentando l’intervento di Letta alla convention di Repubblica («Questo è un governo di necessità...», ha detto il premier di fronte ad una platea non proprio contenta di vedere Pd e Pdl insieme), osserva: «Lì si sono riuniti all’insegna della lotta contro la pacificazione, con lo scopo di far apparire il governo come una melassa. È singolare che il presidente si sia in qualche misura discolpato». Quella dizione, "governo di necessità", proprio non piace al vicepremier: «Entro certi limiti sono d’accordo, ma se il tema della "necessità" si ripete come una giaculatoria politica, si rischia, anche involontariamente, di avere un governo senza una sua missione autonoma». In sintesi: «Roma è Roma, non c’entra col governo nazionale», però «deve essere chiaro che un governo è un soggetto corresponsabile anche politicamente. Tutti dobbiamo remare nell’interesse esclusivo del Paese e questo va fatto con pazienza, ma anche con coraggio. Altrimenti non si va da nessuna parte».Parole che rompono in parte l’armonia. Anche se da Palazzo Chigi minimizzano: «È un pungolo positivo a fare». E dopo pochi minuti l’ufficio stampa del premier fa sapere che Letta, Alfano, Saccomanni e Franceschini sono riuniti per preparare la proposta dell’esecutivo ai capigruppo su Iva, Imu e lavoro. Un modo per dire che il governo sta su un livello, le polemiche su un altro.
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