sabato 20 marzo 2010
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Lorenzo ClementeUna fondazione per minori in memoria di Silvia Ruotolo Tredici anni fa Silvia Ruotolo, 39 anni, camminava per strada sotto casa in salita Arenella, nel quartiere napoletano del Vomero. Era dopo andata a prendere a scuola suo figlio Francesco di 5 anni. A guardarla dal balcone c’era Alessandra, la figlia di 10 anni. Si trovò in mezzo al fuoco di un commando di camorra che sparò all’impazzata per colpire Salvatore Raimondi, affiliato al clan Cimmino, avversario del clan Alfieri. Furono sparati quaranta proiettili che oltre ad uccidere Salvatore Raimondi e ferire Luigi Filippini, la cui collaborazione con la polizia risultò decisiva per l’individuazione del gruppo di fuoco, uccisero sul colpo Silvia Ruotolo, colpita da una pallottola alla tempia.Uno degli assassini, Rosario Privato, fu arrestato il 24 luglio dello stesso anno mentre era in vacanza al mare in Calabria. L’assassinio di Silvia Ruotolo ebbe grande risalto mediatico e contribuì alla crescita della consapevolezza sulla gravità del fenomeno camorristico. Questo grazie anche alla sua famiglia e soprattutto a suo marito, Lorenzo Clemente. Ingegnere, 56 anni, Lorenzo ha cresciuto da solo i due figli. «Non me ne sono mai andato da Napoli – racconta – per rispetto della memoria di mia moglie. Sono entrato in Libera dove oggi presiedo il coordinamento campano delle vittime innocenti della violenza camorrista. Siamo più di 40, purtroppo il numero aumenta ogni anno». La sua forza poggia su due pilastri, la fede e l’amore per i due figli. Oggi la più grande ha 22 anni, sta laureandosi in Giurisprudenza e vuole entrare in magistratura. Ha partecipato a tutte le giornate nazionali del ricordo da quando è accaduta la tragedia.«Lo sente come un dovere verso sua madre, per noi il ricordo di Silvia è sempre vivo. Alessandra ha visto tutto, è corsa in strada, ma non l’hanno lasciata avvicinare alla mamma». Lorenzo invece in questi anni si è impegnato con i più giovani, partecipando agli incontri nelle scuole e nei quartieri a rischio. Hanno deciso che utilizzeranno i soldi del risarcimento per dare vita a una fondazione dedicata a Silvia Ruotolo che si occupi della devianza minorile.Intanto in un palazzo milanese dove un appartamento confiscato alla mafia è stato intitolato a Silvia, i condomini hanno deciso di mettere la targa commemorativa all’interno dell’androne. Forse hanno avuto paura, forse temono che l’immobile chissà perché si svaluti. Se oggi avessero stretto la mano a Lorenzo e ai suoi figli, di certo proverebbero vergogna.
Debora Cantisano«Oggi ho deciso di perdonare  l’assassino pentito di mio papà»
Lollò Cantisano era un bravo fotografo e una persona perbene. Aveva una bella famiglia e aveva coronato il sogno di una vita, comperarsi una casetta in riva al mare per l’estate a Bovalino Marina. La ’ndrangheta lo rapì nel 1993, la famiglia pagò il riscatto, ma lui non fece mai più ritorno. E per dieci, terribili anni di lui non si è saputo più nulla. «Poi – racconta Debora, sua figlia, 38 anni – nel 2003 ricevo una lettera anonima. Un uomo indicava il punto dove è stato sepolto e racconta a che i sequestratori l’avevano ucciso per errore. Volevano tramortirlo, ma lui era morto per un colpo ricevuto in testa. Aveva 56 anni. Il medico legale ha confermato che lo hanno ammazzato sfondandogli il cranio. La lettera si concludeva con una dichiarazione di pentimento e la richiesta di perdono». Debora non si è mai arresa, ha sempre reagito al dolore impegnandosi.«Dopo il sequestro organizzammo un comitato di giovani, fu una cosa che fece rumore a Bovalino. Volevamo tenere viva l’attenzione. Sono stati anni allucinanti, la speranza che mio padre fosse vivo non mi ha mai abbandonato. Almeno abbiamo potuto seppellirlo, rispetto ad altri siamo stati fortunati». Questa donna piccola e forte si è avvicinata a Libera, si è impegnata negli incontri con i giovani. Oggi la casa sul mare di Lollò ospita campi estivi. Soprattutto, in lei è maturato il desiderio di perdonare l’assassino del papà. «Quella lettera mi ha colpito. Sono credente e se uno decide di pentirsi, significa che ha compiuto un cammino. Credo che un assassino possa cambiare e possa sinceramente diventare un’altra persona. Questo me lo diceva anche mio padre». Così oggi Debora ha deciso di incontrare i detenuti del carcere di Reggio Calabria. «Non sono boss, sono la manovalanza delle ’ndrine. Ma mi siedo di fronte a loro e racconto la storia di mio padre. Tutto qui. In genere da questo nasce un confronto. Credo che questo possa essere di sprone per chi ha sbagliato». Per prevenire altro male e riparare quello che è stato fatto.
Marino CannataIl dolore e l’orgoglio del figlio di un calabrese forte e onesto
Piangere dopo 37 anni per un papà che ti hanno ammazzato quando eri poco più di un bambino. Perché la sua carezza ti manca disperatamente, la sua forza ti sarebbe servita. Marino Cannata oggi ha 50 anni e dal 1984 vive a Milano, dove si è sposato e ha una figlia di 18 anni.«Sono originario di Polistena, nella Piana di Gioia Tauro. Mio nonno fece fortuna come imprenditore agricolo, agrumi e olive. Acquistò terreni ai latifondisti, creò un’azienda con 40 dipendenti». Allora ricevette una lettera minatoria. Se non voleva problemi, doveva pagare il pizzo. «Ma mio padre Domenico non era d’accordo. Era un uomo forte e onesto, non voleva sottostare alle prepotenze mafiose. Così cominciarono a tagliarci le piante, ma lui niente, le ripiantava. Avevo 12 anni, quando una notte ci fecero saltare la casa con una bomba. Mio padre venne letteralmente dilaniato. Il mio ultimo ricordo di lui è il suo lungo grido di dolore». Marino è diventato adulto, ma quell’assenza non l’ha mai colmata.«Mio padre mi manca, eccome. Non ho potuto averlo vicino quando mi sarebbe servito, quando crescevo. Ho sempre avuto un carattere esuberante, a un certo punto la mi famiglia mi ha consigliato di trasferirmi a Milano. Oggi, grazie a mia moglie, ho trovato la fede e sono un uomo pacificato».Due momenti sono stati importanti per lui. «Primo, incontrare don Ciotti e Libera. Perché prima di loro mi sentivo solo e quando raccontavo la mia storia la gente dubitava che anche la mia famiglia fosse mafiosa. Adesso la verità sulla mia terra sta venendo a galla. Così ho trovato il coraggio, 15 giorni fa, di accettare l’invito del liceo di mia figlia, dai Salesiani. Ho raccontato ai ragazzi e a lei la mia storia. Non è stato facile, ho lottato per dominare le mie emozioni». Marino insomma ha fatto i conti con la figura paterna negata. «Per reazioni ho capito che sono stato un padre molto protettivo. Ma ho anche ritrovato il mio orgoglio di calabrese onesto. E questo lo devo al sacrificio di mio padre, ora so che non verrà dimenticato».
Ninetta BurgioDopo 14 anni ha seppellito il figlio ucciso dai baby-killerOgni anno da 14 anni Ninetta Burgio partecipava alla giornata del ricordo con un cartello appeso al collo. Chiedeva notizie di suo figlio Pierantonio, sparito nel nulla a Niscemi, provincia di Caltanissetta, a 18 anni nel 1996. Non che si facesse illusioni dopo così tanto tempo, ma voleva almeno far celebrare il funerale e dargli una sepoltura cristiana. «E poi c’erano quelle voci – spiega – per le quali se era sparito, doveva per forza essere un poco di buono. Chissà cosa aveva fatto, mormoravano. Ma non ci potevo credere, mio figlio era un bravo ragazzo. Tornava a casa senza camicia o senza giubbotto perché lo regalava ai suoi compagni poveri che non potevano permetterselo. Non sopportava di vedere qualcuno soffrire». Quest’anno Ninetta ha arrotolato il cartello con la foto di Pierantonio. Lo ha mostrato felice e commossa e tutta la platea dei parenti delle vittime all’auditorium dei gesuiti è scattata in piedi. È successo infatti un miracolo. «Un giovane detenuto per reati di mafia ha chiesto di parlare con un magistrato. Poi ha pianto per un’ora e mezza per il rimorso e ha confessato il delitto. Pierantonio l’aveva ammazzato lui insieme ad un altro gruppo di giovani. Conoscevano bene mio figlio. Li aveva visti quella sera, erano stati assoldati da alcuni candidati alle elezioni legati alla mafia per minacciare e intimidire gli avversari. Sapevano che lui non avrebbe taciuto, hanno deciso di farlo stare zitto per sempre».Hanno trovato il corpo del giovane. Era sepolto in campagna, avevano fatto tutto così in fretta che il piede affiorava dal terreno. Il funerale l’ha celebrato don Ciotti nella chiesa di Niscemi. La bara di Pierantonio era bianca e leggera perché conteneva le ossa. C’era tanta gente quel giorno. Anche i mandanti assistevano alla finestra, in attesa che qualcuno li assicuri prima possibile alla giustizia. Ninetta che non ha mai smesso di battersi per il figlio oggi ha deciso di girare le scuole per raccontare la propria vicenda. «Posso solo dire cosa è successo a Pierantonio e metterli in guardia dalle droghe, che li riducono come zombi. Voglio ringraziare in particolare le forze dell’ordine che mi sono sempre state vicino». Oggi il ritratto è arrotolato. Volevano ucciderlo due volte, far morire anche la sua memoria. Perché la mafia vive e prospera sulla menzogna. «Invece ha vinto la verità. Oggi se mio figlio fosse qui camminerebbe insieme a noi, lo so. Lui credeva nei nostri stessi valori, era un bravo ragazzo».
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