sabato 6 aprile 2019
La lettera del Papa, la fiaccolata con il presidente del Consiglio e il messaggio di Mattarella. Dieci anni dopo il terremoto, le periferie sono state ricostruite meglio del centro storico
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Per L'Aquila è stata la notte del dolore e del ricordo. Dieci anni dopo, migliaia di persone hanno partecipato alla fiaccolata in memoria delle 309 persone decedute alle 3 e 32 del 6 aprile 2009, presente anche il premier, Giuseppe Conte, accolto dal cardinale e arcivescovo metropolita Giuseppe Petrocchi. "Prego per tutte le vittime di quella tragedia e per le loro famiglie. Vi assicuro che accompagno, con viva partecipazione, il faticoso cammino che vi impegna a ricostruire - bene, rapidamente e in maniera condivisa - gli edifici pubblici e privati, come anche le chiese e le strutture aggregative", ha scritto il Papa in una lettera agli Aquilani.

Ad aprire il corteo, in via XX Settembre, i familiari delle vittime, tra le mani un lenzuolo bianco con impressi in rosso tutti i nomi di chi quella notte non sopravvisse; con loro, i comitati nati a seguito di altre tragedie, da Viareggio a Rigopiano, da Amatrice a San Giuliano di Puglia fino all'Emilia Romagna. A seguire, tanti cittadini e tanti volontari e soccorritori che dieci anni fa giunsero da ogni parte d'Italia per tirare fuori gli aquilani dalle macerie. Il percorso si è snodato silenzioso lungo via XX settembre, con soste nei luoghi del dolore, per arrivare in Piazza Duomo dove sono stati letti i nomi delle vittime. Infine la messa e veglia di preghiera aspettando le 3:32, con i 309 rintocchi della campana della Chiesa. Oggi è arrivato anche il messaggio del presidente della Repubblica Mattarella, che ha espresso l'auspicio che "il motore della ricostruzione" sia "portato a pieno regime. Gli stessi cantieri devono diventare simbolo e incentivo alla speranza".

Il giorno, la notte. Dentro, fuori. La polvere, i giovanissimi. Le Aquile sono in qualche modo tante, ma tutte una. Quella del centro storico, che di giorno vive fra polvere e rumore dei lavori e la notte scivola dentro il silenzio. Quella nel centro storico, fatto ancora di tante piccole zone rosse. Quella delle periferie, assai più avanti nella ricostruzione. Quella del fine settimana, che si riempie di ragazzi, di gente, che a sera quasi s’accende di movida e per qualche ora mette da parte questi dieci anni. Quella delle decine e decine di gru che si vedono fin dall’autostrada, dei troppi cartelli ' Vendesi' e ' Affittasi'. Quella, di nuovo, del centro storico, dove s’affacciano diversi negozi e però non c’è l’ombra di servizi pubblici (da un ufficio postale a quelli comunali). Quella delle new town, alcune abbandonate, altre nelle quali vivono ancora 10mila persone. Delle scuole, nessuna rimessa in piedi, con la 'De Amicis' a ricordarlo per tutte, grande, solenne, ingoiata da tubi Innocenti che la puntellano fino in cima e ai quattro lati, accanto alla basilica di San Bernardino.

Quella notte il terremoto le spezzò le ali, L’Aquila venne abbattuta, non uccisa. Tremilaseicentocinquanta giorni dopo la vedi rialzata e, sia pure lentamente, sia pure tra difficoltà, inizia a spiegare nuove ali. Fu un sisma feroce quanto un milione di tonnellate di tritolo, alle 3 e 32 della notte fra il 5 e il 6 aprile 2009. Infine si contarono 309 morti (fra loro, 8 ragazzi venuti qui all’università), 1.600 feriti, quasi 80mila sfollati. Colpì 57 comuni, 42 nella provincia dell’Aquila, 7 in quella di Pescara, 8 nel teramano. Le prime parole dell’allora governatore abruzzese, Gianni Chiodi, la mattina del 6 aprile, misero i brividi: «La situazione è talmente grave che non può essere sotto controllo. Non riusciremo a salvare tutti».

Camminando i ricordi graffiano, ma fanno un po’ meno male. Mentre riaffiora negli occhi ogni angolo com’era e non è più e però non se n’è mai andato. Le macerie grondanti dolore, morte, poi rabbia. Il sangue sui marciapiedi. Una finestra in corso Federico II dietro la quale, a sera, una luce rimasta accesa faceva contatto, sfarfallando surreale. Le prime coperte da distribuire. Le case abbandonate in pochi attimi. No, quasi più niente è come allora, il centro storico aquilano sta venendo davvero bello e bene. Mentre ieri si fa oggi, perché non sia anche domani. Custodendo la memoria, che «vuol dire proteggere i territori per proteggere le vite», spiega Antonietta Centofanti, che fa parte del comitato 'Familiari vittime della Casa dello studente'.

«Il terremoto ce lo portiamo addosso come un tatuaggio», dice Monica Santoro, giornalista. «Abbiamo sempre chiesto almeno le scuse per L’Aquila, oltre alla verità e alla giustizia processuale – ricorda Carla Cimoroni, dell’associazione 'L’Aquila in Comune' –. Scuse che non sono mai arrivate». Questi dieci anni in queste settimane si affollano dentro uno sull’altro. «Eravamo in casa, abito proprio in centro, eravamo quattro famiglie, uscimmo fuori in tre, una morì sotto le macerie. Ed è stato difficile, lo è ancora. Ha lasciato un segno che penso non passerà», sussurra Ciro Improta, associazione 'Bibliobus', napoletano trapianto nel capoluogo abruzzese dal 1974.

Aveva solo quattordici anni Davide Massimo, aquilano, studente in Ingegneria: «Abbiamo vissuto una gioventù diversa da tutti gli altri, fatta di spazi mancati, di tempi mancati », dice. Fatta di «quella che apparentemente era normalità, ma che non era tale– aggiunge Lorenzo Micarelli, anche lui oggi ventiquattrenne e futuro ingegnere –. In qualche modo ci ha formato». Per Francesca Tarantino, anche lei dell’associazione 'L’Aquila in Comune', «sono stati i dieci anni più duri e belli della mia vita. Perché ho dovuto fare i conti con la quotidianità, che qui è tutta particolare, e perché ho incontrato persone con le quali ho condiviso momenti meravigliosi». Poi c’è domani. Il futuro. «Non vogliamo più fare le vittime del terremoto – avvisa Giancarlo Gentilucci, di 'Arti e spettacolo' –. Vogliamo che ciascuno si assuma la responsabilità di ciò che dovrà avvenire, partecipando tutti a quella che sarà una città nuova». A proposito, il sindaco, Pier Luigi Biondi, l’ha detto qualche giorno fa: «La ricostruzione privata è al settanta per cento ed entro il 2022 sarà completata. La ricostruzione pubblica, invece, segna il passo».

Fa caldo di giorno e freddo la sera, come dieci anni fa. Secondo Massimo Prosperococco, del comitato aquilano 'Scuole sicure', «dovrebbe andare di concerto con quella materiale, invece è mancata la ricostruzione sociale della città». Forse perché L’Aquila non si è spopolata, la sua gente soprattutto s’è sparpagliata fuori dal centro storico. Dove, prima o poi, tornerà.

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