sabato 9 novembre 2013
​Riconosciuto dai migranti superstiti del naufragio del 3 ottobre. L’uomo, un 24enne eritreo, si nascondeva nel centro di prima accoglienza dell’isola e ha rischiato il linciaggio. Don Mosé Zerai (Habeshia): «Da anni denunciamo questo scempio terribile».
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​Tutto può accadere, nel centro di accoglienza al collasso di Lampedusa. Anche di veder spuntare, un bel pomeriggio, tra le brande ammassate e la babilonia di panni stesi, il volto di chi ti ha promesso l’Italia nel deserto. Chi ti ha segregato, spogliato di tutto, torturato e infine gettato su quella carretta del mare che il 3 ottobre è andata a fuoco al largo di Lampedusa, seppellendo negli abissi 366 dei tuoi amici e compagni di viaggio.Eccolo lì, l’aguzzino senza cuore: è arrivato su un barcone, si è nascosto tra gli altri disperati, lupo tra gli agnelli. E forse l’avrebbe fatta anche franca, se gli eritrei sopravvissuti al tragico naufragio non l’avessero riconosciuto. Insulti, grida, in pochi minuti nel centro è scoppiato un putiferio e gli africani hanno tentato di linciarlo. Poi sono intervenuti i responsabili della struttura. Di lì le indagini, le foto segnaletiche distribuite tra i migranti, le testimonianze raccolte e messe a verbale. Alla fine, ieri, il somalo Mouhamud Elmi Muhidin è finito in manette con le accuse pesantissime di sequestro di persona, tratta di esseri umani, associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e violenza sessuale.

A 24 anni, è il primo ad essere arrestato tra i capi della organizzazione criminale transnazionale che gestisce i flussi migratori illegali tra il corno d’Africa, il Sahara e la Libia verso le coste della Sicilia. Un successo, per le forze dell’ordine e la magistratura italiane, che con sé porta l’orrore di quel traffico, ricostruito attraverso i racconti dei sopravvissuti. Già, perché prima di morire in mare, a un passo dal futuro che avevano sognato per sé e per i propri figli, le vittime del naufragio del 3 ottobre (tutte eritree) hanno subito ogni genere di violenza e abuso. Intercettati nel deserto al confine tra Sudan e Libia, sotto la minaccia di armi sono stati caricati su pick up e portati a Sebha, nel Sud della Libia. Lì, stipati in un edificio abbandonato, hanno dovuto contattare i familiari all’estero e far versare su dei conti correnti una cifra tra i 3.300 e i 3.500 euro. Una detenzione durata giorni, durante i quali gli uomini sono stati barbaramente torturati, le donne seviziate e in alcuni casi anche vendute o uccise. A pagamento avvenuto, i profughi sono stati poi trasferiti sulla costa libica dove gli aguzzini hanno preteso un’ulteriore pagamento di 1.500 dollari per il “biglietto” della traversata. Verso la morte.

Gli inquirenti hanno accertato che l’organizzazione opera così da anni: un film dell’orrore vissuto da migliaia di migranti prima degli eritrei morti a ottobre nel Canale di Sicilia, come Avvenire ha peraltro documentato con una lunga serie di inchieste tra il 2010 e il 2011.

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