venerdì 3 giugno 2016
​Il vescovo che ha dato il via libera all'accoglienza nelle parrocchie: "Letti e farmaci per i migranti. Sta nascendo una rete di prossimità sorprendente".
I migranti, la Chiesa e certa «politica» di Marco Tarquinio
Suetta: «A Ventimiglia risposta umanitaria»
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Nel limbo di Ventimiglia si sta giocando in questi giorni una partita di grande importanza per il futuro dell’accoglienza nel nostro Paese. È quella che misura la nostra capacità di trovare soluzioni per chi vive perennemente sulla frontiera, senza status giuridico riconosciuto e senza destinazione. «Il desiderio di tante persone cui abbiamo dato ospitalità in realtà è quello di andare in Francia, dove però vengono puntualmente respinti» racconta il vescovo di Ventimiglia-San Remo, Antonio Suetta. È stato lui il primo a rompere gli indugi, a chiedersi cosa fare per «questi ragazzi che non sono inseriti in un percorso, spesso vagano per la città e si fermano in campi abusivi». Eppure, non è un problema nato ieri... No, è un discorso che parte da lontano, almeno un anno fa. La scorsa estate si era verificata una situazione analoga, che venne tamponata grazie a un centro di accoglienza allestito in alcuni ex locali della stazione ferroviaria. La chiusura imposta di recente dal Viminale, che ha recepito alcune osservazioni giuste di cittadini, ha fatto però riesplodere il problema. Qual è l’emergenza più grande in questo momento? Il problema vero non è il fenomeno migratorio in sè. Come diocesi abbiamo sempre accolto profughi già inseriti nei circuiti dei richiedenti asilo e nei percorsi di integrazione. La questione-chiave riguarda le persone di passaggio, i cosiddetti transitanti. Si insediano in aree abusive con il supporto problematico dei no borders, gironzolano qua e là. Sono davvero in un limbo e finiscono per innescare meccanismi di sgombero, che li riportano al punto di partenza, spesso nei centri della Sicilia. Ecco, io considero tutto questo non solo dispendioso e inefficace dal punto di vista organizzativo, ma anche una sofferenza inutile per chi viene coinvolto... Tocca alla Chiesa dunque intervenire con un’opera di mediazione? Mi sono detto: cominciamo a dare a questi giovani un minimo di ospitalità, di cibo e di cure. E poi informazioni, per dare loro quella consapevolezza che spesso non hanno. Da qui è nata questa risposta umanitaria, in perfetto spirito cristiano. Come risponde alle preoccupazioni evocate dagli enti locali? Guardi, non stiamo facendo nulla di straordinario. Sono le situazioni concrete che ci hanno condotto a rispondere a queste necessità. Cosa avremmo dovuto fare? Rispedirli a casa loro? Chi lo dice evoca slogan che vanno innanzitutto contro la Costituzione, che difende il principio di solidarietà. Ripeto: siamo di fronte a una pacifica battaglia civile. Dobbiamo riconoscere a queste persone il diritto a fuggire da situazioni di guerra e a cercare condizioni di vita migliori. Invece, quello che constatiamo quotidianamente nelle storie di questi profughi è che la burocrazia ha delle rigidità che non sopporteremmo neppure noi. Quali sono le priorità in questo momento? Abbiamo bisogno di letti, materassi, servizi. Generi alimentari ne abbiamo abbastanza, servono invece molti medicinali. Ci hanno telefonato da una farmacia, per darci quel che è necessario, molti medici sono venuti volontariamente a fare visite: si è creata una rete di prossimità davvero sorprendente, grazie al lavoro prezioso e competente svolto dalla Caritas. Poi è chiaro che non potremo accoglierli tutti, ma intanto dobbiamo fare qualcosa. Il modello giusto resta quello dell’accoglienza diffusa?  Sì, noi lo stiamo incentivando. Stiamo garantendo già 316 pasti a più di 150 persone, le parrocchie hanno risposto bene. In un’altra struttura diamo alloggio a quattro donne incinte, altri spazi si stanno rendendo disponibili grazie anche a privati con appartamenti. Per le prossime settimane, confidiamo concretamente che ci diano aree per realizzare le tendopoli, così il nostro impegno sarà più agevole. Al di là degli aspetti logistici, resta un nostro dovere avvicinare queste persone. Come dice il Papa, un conto è trattare un caso, un altro è occuparsi di una persona. Se riuscissimo a mettere da parte i cliché, la nostra visione dei fatti cambierebbe immediatamente.
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