venerdì 16 giugno 2017
Parla Rino Rappuoli, uno dei massimi esperti di vaccini al mondo che si è aggiudicato il premio alla carriera European Inventor award: «Ha brevettato un nuovo metodo per creare vaccini»
Rappuoli: basta bufale, i vaccini salvano vite
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L’innovazione italiana cala le sue carte. E torna a vincere. E’ andato all’italiano Rino Rappuoli, senese di 65 anni, il premio alla carriera del XII 'European Inventor Award', l’Oscar dell’innovazione tecnologica conferito dall’Epo, l’ufficio europeo dei brevetti con sede a Monaco di Baviera. La cerimonia tornava quest’anno nel Belpaese che, a livello di singoli, non se lo aggiudicava da un decennio (nel 2006 con Federico Faggin, inventore del microchip). Rappuoli è un pioniere nel campo dei vaccini e, ha ricordato Benoit Battistelli, presidente Epo, 'i suoi brevetti hanno creato un nuovo metodo per creare vaccini, un’opera che ha reso il mondo più sicuro'. Nella cerimonia sono stati proclamati anche altri vincitori: una giuria internazionale presieduta dall’imprenditore Mario Moretti Polegato aveva selezionato infatti - fra 450 tra inventori e team - tre finalisti per ciascuna delle 5 categorie del premio. Ha presenziato Carlo Calenda: il ministro dello Sviluppo economico ha detto che il premio «ha un enorme significato perché riassume un po’ l’eccellenza italiana, che molto spesso è nascosta». (E. Fat.)

La semplicità di essere un salvatore di vite. «È una motivazione enorme. Se dovessi scegliere fra un miliardo di lavori, ancora oggi sceglierei questo. Tante volte ho pensato "e se avessi fatto il medico?". Il medico salva però una vita alla volta, non centinaia o migliaia». Microbiologo di fama mondiale, uno dei massimi esperti di vaccini, Rino Rappuoli, sposato, 2 figli, seduto su un divanetto bianco davanti alle acque dell’Arsenale è ancora inebriato del riconoscimento ricevuto.

Lei è diventato un grande della scienza pur operando quasi sempre a Siena. Farcela in Italia è possibile, allora?
Lo è ma è più faticoso. Da noi devi essere una persona eccezionale anche per fare cose normali. In altri posti, anche chi non è il migliore al mondo può fare cose eccezionali.


Che cos’è che fa la differenza?
Ho capito che è il sistema, il contesto. Prima e dopo la laurea sono stato ad Harvard e in altri atenei. Mi aspettavo di trovare persone più intelligenti, più creative di me. Ne ho trovate, ma come in Italia. Lì trovi però l’infrastruttura e l’ambiente giusti. Nessuno ti chiede cose in più. I migliori al mondo vanno a parlare in quelle università, i finanziamenti di base ci sono sempre. Tutto ti porta a dare il meglio di te, se tu lo vuoi.


In Italia invece?
In primo luogo, non viene valorizzato sempre il più bravo, non si sceglie a priori la qualità. Scattano altre logiche. Se vuoi avere un budget certo, ad esempio, non devi essere bravo in quello che fai, ma magari nel cercare fondi. Così finisce che diventi bravo a fare altro e ti "scordi" la tua missione.


Com’è che lei ci è riuscito a Siena?
Perché mi sono impuntato proprio pensando: ma perché dev’essere così in America e da noi no? Poi perché non mi sono legato alle università. Ho avuto la fortuna di operare in un polo privato dedicato alla ricerca, grazie al sostegno di realtà industriali - oggi la Glaxo Smith Kline - che hanno creduto in me.


Come nasce la passione per i vaccini?
Accanto alla cattedrale, a Siena abbiamo le mura del Duomo nuovo, lasciate a metà per la peste del 1348. Quell’epidemia ci privò di un’ulteriore bellezza. Non volevo che una cosa simile potesse accadere di nuovo.


Mi racconta un paio di momenti chiave della sua vita?
Uno è il 2000. Lavoravo in Inghilterra, dove il meningococco C procurava ancora 1.500 casi l’anno di meningite, malattia terribile, e ben 100/150 morti. Il governo fece un mega-piano: in un anno furono vaccinati tutti gli inglesi dai 2 mesi ai 18 anni, circa 20 milioni di persone. Ma il male fu debellato.


E l’altro?
La lotta al meningococco B. Sul piano tecnologico era impensabile fino agli anni ’90. Poi arrivò la terapia genomica, che vuol dire poter leggere il libro con cui viene disegnato il corpo umano. Mi rivolsi a Craig Venter, il pioniere della genomica. Dentro il Dna del batterio abbiamo trovato una miniera d’oro. Quando a febbraio 2013 ricevemmo dall’Ema (l’agenzia europea del farmaco, ndr) l’ok al vaccino, fu una felicità enorme: nuove frontiere si erano aperte.


A proposito: che ne pensa della polemica sui vaccini in Italia?
Dobbiamo essere contenti che ci possiamo permettere una polemica simile. Se va nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), nessuno è contrario. Penso alla difterite: non molti anni fa avevamo ancora 50mila casi annui solo in Germania, ora non c’è più. La colpa maggiore la do al sistema educativo. Perché vuol dire che oggi, grazie ai vaccini, agli antibiotici, all’igiene, abbiamo una generazione di giovani genitori che non ha mai visto certe malattie. Ma ai quali, evidentemente, non è arrivata la giusta comunicazione.


Qual è il futuro dei vaccini?
Non saranno più materia solo per i bambini, ma sempre più anche per anziani. La tecnologia sta cambiando tutto, fra 5 anni potremo fare cose che oggi ci sono negate. Penso a vaccini anche per alcune forme di tumori.


Cosa l’ha davvero soddisfatta?

Vivevo una frustrazione. Lavorando per un’industria che punta al mercato, a vendere prodotti su larga scala, non puntava sui vaccini per i mali che uccidono ancora solo in Africa o in alcuni Pvs. Riuscii a convincere per prima Novartis a creare l’Institute for global health che, realizzando un felice connubio pubblico-privato e con donatori come la Fondazione Gates, mi ha consentito di sviluppare vaccini anche contro la Shigella o la salmonellosi non da tifo. Le vaccinazioni aiutano a ridurre le distanze fra Paesi ricchi e poveri.

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