domenica 5 giugno 2022
Il parroco don Michele Zanon ha lasciato la sua casa a quattro giovani madri, una nonna, un papà e sei bambini arrivati dal Paese in guerra
Nel paese che ebbe il campo di concentramento nazifascista la solidarietà è scritta nel Dna, «dal dentista che offre le cure, ai motociclisti che raccolgono aiuti. E il giardino è pieno di bici regalate». Nella foto Artèm, in carrozzina, che è scappato con il suo cagnolino.

Nel paese che ebbe il campo di concentramento nazifascista la solidarietà è scritta nel Dna, «dal dentista che offre le cure, ai motociclisti che raccolgono aiuti. E il giardino è pieno di bici regalate». Nella foto Artèm, in carrozzina, che è scappato con il suo cagnolino. - L.B.

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Don Michele non fa in tempo a difendersi, in realtà non ci prova nemmeno: come un piccolo sciame i bambini gli si arrampicano sopra, Dasha, 5 anni, la più minuta, gli salta in spalla, dove resta seduta a cavalcioni. Lui, il gigante buono, sorride paziente in quel turbinio di capelli d’oro e manine che si aggrappano a lui. Parrebbe una festa ma in realtà, come dice don Michele Zanon, 51 anni, da un anno parroco di Gonars (Udine), “è una piccola Ucraina ricreata in canonica”. Anche gli adulti sorridono, qui si respira vera aria di famiglia, ma c’è sempre quel velo di tristezza pronto a sgorgare lacrime appena si accenna ai ricordi o si prova a immaginare un futuro che ancora non esiste…

Siamo a Gonars, paesino del Friuli di meno di 5.000 abitanti, noto soprattutto per il campo di concentramento realizzato dai nazifascisti nel 1941. Invano ne cerchiamo traccia: “Dopo la guerra i gonaresi lo smantellarono e con quei mattoni costruirono l’asilo parrocchiale”, spiega don Michele indicando l’edificio adiacente alla canonica. Sui muri che grondarono sangue i colori degli affreschi fatti dai bambini coprono le brutture umane, e chi passa mai immaginerebbe…

Un'altra bella immagine di don Zanon con gli ospiti ucraini

Un'altra bella immagine di don Zanon con gli ospiti ucraini - L.B.

Da due mesi ormai questa “enclave ucraina” ha dato accoglienza a quattro giovani madri, una nonna, un papà e sei bambini, arrivati in più riprese e da diverse parti del Paese man mano che la guerra divorava terreno e vite umane. E ogni volta don Michele traslocava per dare spazio ai profughi: “Scoppiata la guerra, la canonica era così grande che ho lasciato la mia casa al primo piano a tre mamme e cinque bambine, e mi sono organizzato un piccolo appartamento con bagno, camera e salottino al piano terra – racconta il parroco –. Poi però una famiglia di volontari dell’associazione ‘Papa Giovanni XXIII’ di don Benzi mi ha chiesto aiuto per due genitori con un bimbo gravemente disabile che erano ancora in fuga dall’Ucraina, al confine con la Bielorussia: da dieci giorni e dieci notti scappavano a zig zag in macchina cercando un varco sotto i bombardamenti per uscire dal Paese”.

A ogni esplosione le crisi spastiche di Artèm, 13 anni, affetto da tetraparesi, diventavano terrore, occorreva immediatamente una destinazione sicura per mandarli in salvo… “Subito ho detto sì, a dove sistemarli ci avrei pensato dopo”. L’appartamentino al piano terra era ideale per Artèm e la sua carrozzina, così don Michele si è trasferito all’ultimo piano, fino a quando non è arrivata Ludmilla, all’inizio in fuga con sua nuora incinta al settimo mese, poi giunta da sola in Italia (“sarò nonna il 12 giugno, il mio nipotino nascerà in Ucraina”, racconta lei sorridendo per mascherare il pianto). Alla fine don Michele ha chiesto ospitalità a don Angelo, parroco della vicina Palmanova, ma in tutto questo non trova proprio niente di notevole, “siamo cristiani, no? Se non facciamo così noi, chi deve farlo? E poi mi hanno insegnato che gli spazi vanno riempiti”.

Una lezione appresa da ragazzino, quando negli anni ’80 i suoi genitori a Cividale del Friuli erano tra i primi ad accogliere in famiglia gli immigrati africani. Poi il giovane Michele a 19 anni scelse di fare l’obiettore di coscienza in una comunità per disabili: ne uscì che ne aveva 29, lasciando per sempre il lavoro nella fabbrica di mobili del padre e ascoltando il suo pensiero fisso, “è inutile che io continui a fare il catechista e l’animatore parlando del Vangelo, è ora di passare alla pratica”.

Da lì al seminario il passo è stato breve, e tutto il resto è arrivato in gran velocità, a cavallo della potente moto con cui il centauro don Michele ha iniziato a portare scompiglio tra giovani e anziani, uomini e donne, appassionati come lui di moto. Prima sono arrivati i “motopellegrinaggi” in giro per i santuari in Italia, poi i viaggi in Togo e Costa d’Avorio per portare aiuti alle missioni, e da 12 anni si è inventato le “motobenedizioni” alla Madonna Missionaria di Tricesimo, dove sono più di cinquecento a seguirlo, con tutto l’armamentario tipico dei centauri (giubbotti, tatuaggi, caschi aerografati e grande cuore). “L’obiettivo era fare qualcosa per i troppi giovani che muoiono ogni giorno sulle strade – racconta –, volevo accostarli a un modo diverso di concepire la moto e ha funzionato, tra i credenti e anche tanti non credenti, perché la solidarietà trova il punto di unione tra mondi apparentemente distanti”. E’ senza alcuna esaltazione, anzi con leggerezza, che il suo esercito su due ruote si è chiamato “I cavalieri delle nubi” (secondo il Salmo 68, “spianate la strada a chi cavalca le nubi”) e tra un mese porterà alimenti e medicine in Ucraina a bordo di un camion scortato dalle moto.

“Bisogna averla provata con la pelle, con gli occhi, con le orecchie, la guerra”, commenta Vitàli, il papà di Artèm, l’unico dei mariti uscito dall’Ucraina grazie alla disabilità del figlio. Gli altri, come tutti gli uomini tra i 18 e i 60 anni, sono “riservisti” in patria, con la spada di Damocle di essere chiamati a combattere. “C’è poco da dire sì o no”, alzano le spalle tra fierezza e rassegnazione le loro mogli, Natasha, Lilia ed Elèna, “volere o non volere non conta, adesso è un dovere”, ma ciò che sognano è “che finisca presto”. Natasha, 32 anni, è mamma di Anastasia e Dasha, 10 e 5; Lilia, 40 anni, è qui con Diana di 14 e Anna di 9; Elèna, 33 anni, e Alessia, 9, arrivano da Irpin, nel distretto di Bucha, sanno per certo che la loro casa non esiste più. “La nostra speranza? Tornare alla normalità”, sospira Galina, 50 anni, madre di Artèm e moglie di Vitàli, l’unica che ha qui l’intera famiglia. Si muove con dolcezza e padronanza insieme, come fosse la sorella maggiore di tutti loro.

“Ci siamo conosciuti qui a Gonars ma siamo diventati una famiglia, moralmente ci sosteniamo a vicenda e ci diamo coraggio”, dice offrendo il caffè e distribuendo caramelle ucraine ai bambini. “Se abbiamo avuto paura dell’ignoto partendo dall’Ucraina?”, si stupiscono tutte le madri guardandoci come si guarda chi non può capire, “dopo giorni e notti di bombe sulla testa, chiusi nelle cantine, bloccati al confine e con la continua consapevolezza che si sta per morire, qualsiasi posto sicuro è un paradiso”. Conferma Vitàli, mentre fa fisioterapia a suo figlio: “Appena arrivati non riuscivamo a dormire, sempre sudati, sempre quell’incubo. Ora pian piano siamo sereni, ma ancora se passa un aereo rumoroso i bambini cercano un angolo protetto”. E’ stato lui alle 4.30 del mattino del 24 febbraio scorso a scuotere sua moglie, “alzati, è iniziata la guerra”. “Non lo avremmo mai immaginato – continua Galina, che era direttrice di un grande supermercato –, abbiamo cominciato a chiamarci tutti al telefono, non ci si credeva, ma sentivamo le bombe. Noi vivevamo a 50 chilometri dal confine con la Russia e con la Bielorussia, in piazza un monumento rappresentava tre sorelle abbracciate: i nostri tre Paesi…”. Artèm sulla sua carrozzina qui è contento, tutti i giorni segue la scuola in Dad con la sua maestra dall’Ucraina, don Michele gli ha organizzato perfino un giro in side-car con i motociclisti, “ma tutti i giorni ci fa la stessa domanda: quando andiamo a casa?”.

Cala un silenzio addolorato, anche don Michele, con il grappolo di bambini su spalle e ginocchia, è di colpo triste. Tornare. Il miraggio di tutti loro. “Stavamo bene, vivevamo come voi”, provano a spiegare l’impossibile Lilia e Natasha, “l’Ucraina è bellissima, magari si guadagna poco ma eravamo felici, avevamo tutto, lì si tiene tanto alla famiglia. Poi con la guerra è tutto finito”.
Appena arrivati, ricorda don Michele, la prima angosciosa domanda, “è vero che da qui non ci manderete via?”, e subito la promessa a cuore aperto, “cascasse il mondo, da qui non ve ne andrete”. Le signore ucraine annuiscono e si commuovono, “siamo state molto fortunate a capitare in questa famiglia – traduce l’interprete Olga, da 12 anni in Italia con marito e due figli (nati qui, ma ancora senza cittadinanza italiana), e mentre traduce si commuove pure lei –, don Michele è meraviglioso, ha una pazienza infinita e un grande cuore, dalla cosa più piccola alla più grande è sempre disponibile, la sua risposta è sempre sì”. Sono ortodosse praticanti, ma “siamo tutti cristiani, preghiamo anche noi alla Messa”. Quello che proprio non tollerano, allora, è “l’ignobile atteggiamento di Kirill”, così diverso da Papa Francesco: “Anche lui è cristiano, come può volere la guerra? Il Vangelo cosa dice? Non occorre una grande esegesi…”.

Dal loro arrivo a Gonars la Caritas diocesana gestisce la piccola enclave ucraina, ogni settimana arriva la spesa con cui le signore cucinano per la grande famiglia, più una piccola somma per le spese personali. Ma aiuti e assistenza arrivano anche dalle nove parrocchie seguite da don Michele, in totale novemila abitanti: “L’accoglienza è stata molto calda, c’è una vera gara di solidarietà – testimonia il prete –, tutte le bambine frequentano la scuola, Dasha va all’asilo parrocchiale, i piccoli hanno molti amici, le insegnanti e le donne del paese sono vicine alle mamme ucraine, il medico e il dentista offrono le cure, in giardino siamo sommersi dalle bici regalate... Qui si è creata un’esperienza di comunità in cui l’attenzione all’altro si fonde e crea momenti di incontro, anche grazie a numerose realtà del territorio legate alla Chiesa, dalla ‘Papa Giovanni XXIII’ al Piccolo Cottolengo, dai Salesiani a varie associazioni rivolte all’handicap e all’emarginazione. Sono ricchezze che ci nutrono”.

Di queste fa parte Elena Laconig, 45 anni, friulana di Muzzana, il paese vicino. La sua è una “famiglia aperta” della “Papa Giovanni XXIII”, lei e il marito oltre ai “tre figli di pancia” ne hanno “tre di cuore” (come don Benzi chiamava le persone accolte) dai 4 ai 10 anni, disabili gravissimi. “Avevamo dato la disponibilità per accogliere anche Artèm e i suoi genitori, ma la casa su due piani non era adatta alla carrozzina, così mi sono rivolta a don Michele – accenna Elena, abituata a fare, restia a raccontare –. Poi doveva arrivarci una mamma con un figlio tra i più gravi, ma è proprietaria di un’azienda edile e per questo l’Ucraina non la lascia partire… Il buon Dio saprà per chi c’è questo posto in casa nostra”.

Giorni e notti in fuga con i loro figli scappando a zig zag sotto le bombe per cercare un varco. «Quando hai provato la guerra,
trovare un posto in cui non hai ogni momento paura di morire è il paradiso»


La «piccola enclave ucraina» che si è andata creando nella grande canonica. «C’è ancora posto, se Dio lo vorrà», dice don Michele.

La «piccola enclave ucraina» che si è andata creando nella grande canonica. «C’è ancora posto, se Dio lo vorrà», dice don Michele. - L.B.

Artèm, 13 anni, affetto da tetraparesi spastica,
per settimane nascosto in cantina. «Ora siamo sereni, ma quando passa un aereo rumoroso
i piccoli cercano ancora di mettersi in salvo»



Don Michele Zanon, 51 anni, il «gigante buono» attorniato dai piccoli ucraini che da lui si sentono protetti:  «I miei genitori mi hanno insegnato che gli spazi vanno riempiti»

Don Michele Zanon, 51 anni, il «gigante buono» attorniato dai piccoli ucraini che da lui si sentono protetti: «I miei genitori mi hanno insegnato che gli spazi vanno riempiti» - L.B.


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