sabato 24 ottobre 2015
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Della sentenza si sa poco o nulla. L’unica certezza: per la seconda volta, il Tribunale dei minorenni di Roma ha ritenuto che in una coppia lesbica una delle due donne possa adottare la figlia dell’altra, generata attraverso la fecondazione eterologa. Nessuna legge italiana, al momento, consente ciò. L’adozione del figlio del partner è ammessa in un solo caso: quando il minore abbia perso il padre o la madre, e il coniuge superstite sia convolato a nuove nozze. Eterosessuali, s’intende: le uniche previste dal nostro ordinamento. Ma i giudici, anche stavolta, hanno ritenuto di forzare le norme esistenti per portarle a dire ciò che non dicono. Cos’è dunque successo? Con tutta probabilità, com’era accaduto nel 2014, il Tribunale dei minori di Roma ha ritenuto che la legislazione vigente non sia consonante alla nostra Costituzione. Ma «se un organo giurisdizionale teme che una norma non sia conforme alla nostra Carta fondamentale – spiega Antonio D’Aloia, ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Parma – deve sollevare questione di legittimità costituzionale presso la Consulta. Non può dilatare in proprio le norme, a suo piacimento». Entrando poi nel merito, il giurista distingue tra la regolamentazione delle unioni omosessuali e quella della loro eventuale capacità genitoriale. Quanto alla prima, ricorda che «il legislatore ha ricevuto dalla Corte costituzionale un preciso mandato a legiferare». Dunque una legge sulle unioni civili va fatta. Ma da qui a dire che due persone omosessuali possano adottare, molto ce ne passa. Anzi, «dal momento che gli studi scientifici in materia sono tutt’altro che concordi – rimarca il costituzionalista – affermare in questi casi una possibilità genitoriale a tutto campo significa rischiare di comprimere i diritti di colui che la stessa legge sulle adozioni ritiene il principale soggetto: vale a dire il minore». Non solo. «La stessa Consulta, in tema di filiazione, ha più volte ricordato che il principio a cui rifarsi deve essere quello dell’imitatio naturae», vale a dire «ricreare per il piccolo un ambiente di crescita il più possibile vicino a quello naturale. Dunque segnato da un padre e una madre».  Un concetto, questo, che dall’Università europea di Roma riprende il collega Aldo Loiodice. «La famiglia – scandisce – per l’articolo 29 della nostra Costituzione è la società naturale fondata sul matrimonio. E i successivi articoli 30 e 31, proprio per tutelare i bimbi, ascrivono ai genitori precise responsabilità ». Morale: «A mio avviso la sentenza romana non può avere argomentazioni giuridiche. Anzi, pare la soddisfazione di una vanità della coppia, piuttosto che il riconoscimento di normali esigenze di vita». Bocciata dunque sotto il profilo costituzionale, la pronuncia romana sembra non reggere neppure sul versante civilistico. Dallo stesso ateneo lo spiega Alberto Gambino, ordinario di diritto privato. Il suo ragionamento parte da una premessa: «In Italia, la stepchild adoption non esiste. E l’adozione del figlio del coniuge non è tale in senso pieno, perché questa non cancella, ma si sovrappone alla precedente genitorialità». Per capirci: non instaura rapporti di parentela, diritti all’eredità eccetera, insomma «si tratta di una delle 4 adozioni in casi particolari previste dal nostro ordinamento». E precisamente dall’articolo 44 della legge 184/83 così come modificata nel 2001; quella stessa che, disciplinando la genitorialità in situazioni speciali, ammette l’adozione qualora vi sia 'constatata impossibilità di affidamento preadottivo'. Una previsione per cercare di non lasciare in orfanotrofio i bimbi problematici, per esempio quelli con un handicap,  più difficilmente adottabili. Ebbene, se la nuova sentenza rispecchia quella emessa nel 2014, il ragionamento non tiene. «I giudici – spiega Gambino – hanno ritenuto applicabile l’articolo 44, ma erroneamente, perché la piccola una madre l’aveva».  «Manca dunque lo stato di abbandono – conclude concorde da Milano Anna Galizia Danovi, avvocato presidente del Centro per il diritto di famiglia – che è un presupposto di quella norma». Da qui, una certezza: per la giurista, la sentenza si basa su «un’evidente forzatura». Non solo, «è stata pronunciata contro il parere del pubblico ministero», ed è oggetto di impugnazione. Effetti concreti: la sua strada «sarà ancora lunga», i suoi contenuti tutt’altro che assodati.
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