sabato 9 maggio 2020
Accanto ai quei milanesi al centro delle polemiche sull’irresponsabilità (indiscutibile) di comportamenti che potremmo pagar cari c’è una città nascosta e taciturna che è ancora chiusa in casa
La metropoli «vera» ha capito la lezione
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Il virus non è cambiato. E i milanesi? L’Istituto superiore di sanità ha messo in chiaro che, fase 1 o fase 2, al Covid 19 interessa assai poco: lui resta tale a quale, inafferrabile, sfuggente, letale. Niente di più lontano dai gusti e dallo stile di vita di una metropoli alla quale piace pianificare, prevedere, lanciarsi in grandi imprese ma avendo prima fatto per bene i calcoli, fino a diventare spietatamente pragmatica.

Milano è allergica al coronavirus, non ne può più di questo guastafeste che l’ha sgambettata alle spalle proprio mentre stava correndo palla al piede pregustando un altro gol da lasciare a bocca aperta il resto d’Italia: dopo l’Expo, il rinascimento culturale, i grattacieli, i nuovi quartieri, locali e negozi che aprono ovunque, le gru dei cantieri che torreggiano sullo skyline, e poi le Olimpiadi 2026 in tasca, e un ottimismo generale che non contemplava inciampi. Invece s’è trovata da un giorno all’altro con la faccia nella polvere, come una provinciale qualunque. Ha provato a dibattersi, a gridare che non vale, che lei non sa chi sono io, che Milano non si può fermare. Ma niente: il virus non s’è impietosito. Anzi.

Ha trattato la metropoli esageratamente sicura di sé con una durezza che ha lasciato senza parole i milanesi, dapprima convinti che sarebbe durata giusto qualche giorno, poi sempre più increduli davanti all’evidenza di dover rinunciare alle loro abitudini, dal mercato rionale alla corsetta nel parco, dalla passeggiata tra le vetrine del centro all’aperitivo in una delle miriadi di bar che in ogni quartiere tracimano gente sul marciapiede e verso sera offrono lo spettacolo di una città con la voglia di immaginarsi sempre nuova, senza sosta. Fino a due mesi fa.

Ma ora è diverso. Ora tutti noi milanesi abbiamo nelle orecchie il silenzio pesante dei due mesi di lockdown squarciato dall’incessante rincorrersi di ambulanze, lugubre colonna sonora di una vita domiciliata scandita da nuovi riti spartani, con il piccolo cabotaggio del giorno per giorno a rimpiazzare i sogni di un presente di corsa verso un domani in crescendo. Non eravamo preparati, nessuno lo era, ma in questa città fin troppo piena di autostima e di energie – proprie e altrui – l’adattamento a settimane senza vie d’uscita e scorciatoie è stato particolarmente duro. Orgoglio piegato. Per questo è comprensibile – qui forse più che altrove – che a quarantena allentata molti vogliano riprendersi un angolo di quel che gli pare sia stato ingiustamente sottratto, di promesse e impegni ai quali la città sembra venuta meno, come una caparra del risarcimento che si attende di incassare presto, prima che si può. E quindi, tutti fuori, a reclamare il futuro scippato.

Ma accanto a questa porzione di milanesi che ha offerto materia per le polemiche sull’irresponsabilità (indiscutibile) di comportamenti che potremmo pagar cari c’è una città nascosta e taciturna che è ancora chiusa in casa e avverte il dolore delle giornate di immobilità totale come una terra inospitale che non vuole più abitare. Tutti ricordiamo il giorno e l’ora in cui ci è piombata addosso la raggelante notizia del primo amico, il primo vicino, il primo conoscente della parrocchia, del lavoro o della scuola che si era ammalato e del quale – per giorni – abbiamo chiesto notizie. A molti milanesi la malattia poi è entrata in casa, seminando scompiglio, panico, lutti. E sappiamo che non è ancora finita, che gli ospedali non smobilitano, che il futuro è ancora sospeso. Una città così provata non ha proprio voglia di brindare al pericolo scampato.

In questi primi giorni di libertà vigilata la gente è come guardinga, circospetta, timorosa, non vuole saperne più di quell’ottimismo vuoto e stupido dell’«alzati e fattura» di certi meme degli inizi di marzo. Per una città che non ha l’abitudine a tornare sui propri passi la delusione di un dietrofront sarebbe insostenibile. La maggioranza silenziosa dei milanesi lo sa, e soffre per i pochi (ma su scala milanese sembrano comunque tanti) che hanno abbandonato ogni cautela e sembrano voler dimenticare tutto subito. A loro – a noi – spetta la responsabilità di richiamarli a non dar l’idea che adesso torna tutto come prima. Ci vorrà tempo per rialzarsi, ma vogliamo farlo senza più arroganza né illusioni.

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