martedì 28 giugno 2022
Sono necessari invasi, ma anche misure tampone. Ad esempio, riuscire a canalizzare l’acqua dei 6.500 depuratori presenti nel bacino padano
Il corso del Po a Ferrara: la desertificazione avanza

Il corso del Po a Ferrara: la desertificazione avanza - Reuters

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Tra due giorni 750mila persone riceveranno acqua dalle autobotti e ne riceveranno poca. Il Po non ce la fa più a rifornire i potabilizzatori di Ferrara e Ravenna. Al prossimo osservatorio, domani, l’Autorità di bacino distrettuale chiederà di ridurre le irrigazioni e c’è da scommettere che le Regioni faranno orecchie da mercante, perché migliaia di aziende agricole rischiano il fallimento e perché i denari delle concessioni irrigue finiscono proprio nelle casse regionali. La grande sete strangola tutti e presenta il conto: per decenni non abbiamo costruito nuovi invasi per conservare la risorsa idrica e abbiamo dato un ruolo a tutti, così adesso non c’è nessun ente veramente titolato a prendere la decisione finale.

L’ex Magistrato del Po, oggi Autorità di bacino, è alla regia di una tragedia in cui ciascuno recita la parte sua. Nella guerra dell’acqua ciò che emerge è la gravità di un inverno senza neve, una primavera senza piogge e un’estate con le temperature medie più elevate del secolo, ma anche la Babele normativa. Come ci dice Meuccio Berselli, segretario generale Autorità di Bacino distrettuale del Fiume Po, «l’essenza del problema è la nostra capacità di adattarci al cambiamento climatico. O siamo bravi ad accelerare il percorso di investimenti e strategie necessari a tenere insieme gli interessi e i bisogni di un’area che vale il 40% del Pil agricolo e il 55% del Pil idroelettrico, o siamo così bravi a coordinare la selva di enti e competenze sull’acqua, o siamo così bravi a creare una filiera più corta e con un potere decisionale più rapido e veloce... o soccombiamo tutti insieme. Perché non c’è più tempo». Non mancano solo i due giorni di Ferrara e Ravenna.

«La siccità sta provocando danni irreversibili al delta – spiegano negli uffici dell’ex Magistrato del Po –, perché il cuneo salino avanza: le acque salmastre dell’Adriatico, a causa della bassa pressione alla foce, risalgono e sono già entrate per 21 chilometri, minacciando le pompe che servono ferraresi e ravennati ma anche alcuni Comuni rovigini e romagnoli serviti dai potabilizzatori di Pontelagoscuro e dai Nuovi impianti di potabilizzazione, Nip1 e Nip2, che dissetano la Romagna». Questi ultimi sono messi peggio dei ferraresi, che tenteranno di pescare l’acqua più in profondità, perché in Romagna potrebbe arrivare solo un rigagnolo del grande fiume: l’acqua prelevata dal Po, prima di arrivare ai rubinetti di Romagna Acque, deve attraversare il cavo Napoleonico, il Canale emiliano romagnolo e il Lamone. Centocinquanta chilometri.

Per portare due metri cubi al secondo ne servono almeno quindici, perché si tratta di canali a cielo aperto, non in pressione. Con il Po a meno 7,18 metri rispetto allo zero idrometrico non si riesce: a Pontelagoscuro scorrono 160 metri cubi, la metà del minimo e contro una media stagionale di 1.800. Si pesca sempre più in basso, ma le pompe consumano energia e anche potabilizzare l’acqua, quand’è più torbida perché arriva dal fondo, costa di più. Soluzioni? Abbiamo 48 ore per far piovere. Domani mattina si riunirà l’Osservatorio sulle crisi idriche. Sul tavolo la richiesta di nuove riduzioni nei prelievi per l’agricoltura per far arrivare un flusso almeno sufficiente ai potabilizzatori romagnoli, guadagnando qualche giorno; del resto, le dighe stanno dando tutto quel che possono e si è già andati in deroga al deflusso minimo vitale di fiumi e canali.

Ma soprattutto, si discuterà di monitoraggio. Perché i numeri parlano chiaro: lungo le aste dei fiumi si preleva tutta l’acqua possibile, sulla base di concessioni a dir poco datate, fissate cioè quando le precipitazioni erano di ben altra portata. Prendiamo la Dora Baltea: si potrebbero prelevare cumulativamente 163 milioni di metri cubi, ma negli invasi ne restano solo 41,59 e al Po, dopo un megaprelievo a scopo irriguo di 75 metri cubi al secondo ne arrivano solo 14,6. Dalla Sesia, che scorre attraverso le risaie, se ne possono prelevare 73,7, con il risultato che alla foce ne restano 8,5. All’uscita dal lago Maggiore, il Ticino ha una portata di 133 metri cubi al secondo, che alla foce del Po diventano 40,5. Idem per l’Adda: 180 dal lago di Como e 63 alla foce.

Dall’Iseo ne escono 52,7 ma l’Oglio ne consegna al grande fiume solo 7,2. Gli affluenti del Po sono 114. Teniamo presente che se i fiumi sono dimezzati e si discute per ridurre il deflusso minimo vitale/deflusso ecologico fino al 50%, tutti i laghi sono molto al di sotto delle medie e che l’unico a non passarsela del tutto male è il lago di Garda (con uno riempimento del 55% arriverà alla fine dell’estate senza crisi estreme), dal quale peraltro escono 65 metri cubi che diventano 5-10 alla foce. Insomma si preleva a mani basse, perché non vi è alternativa per dissetare le campagne e perché le società idroelettriche, con questi livelli, non riescono a turbinare e solo per questo sono diventate improvvisamente generose con i rilasci. I temporali dei giorni scorsi hanno semplicemente rinfrescato l’aria, visto che solo il dieci per cento delle piogge resta nei laghi e finisce nei fiumi. Servono invasi, ma servirebbero anche misure tampone.

Ad esempio, se si riuscisse a canalizzare l’acqua dei 6.500 depuratori presenti nel bacino padano, che spesso si disperde, funzionerebbe come nel Reggiano, dove il depuratore Iren rifornisce il consorzio di bonifica con 5 milioni e mezzo di metri cubi, evitando di ricorrere al Po. Se guardiamo alla diga di Ridracoli nell’Appennino forlivese, che è ad uso idropotabile, è piena all’ 85%. Grazie al fatto che durante il periodo invernale hanno prelevato acqua dal crinale e hanno creato un 'magazzino' da cui oggi si dissetano i turisti della Romagna. Da copiare. Berselli insiste perché si affronti il tema della rete, che è ancora un colabrodo con perdite del 40%, e si rivedano i sistemi di irrigazione. Urgono strategie dopo sei crisi in vent’anni.

Questa è la più grave perché si è partiti senza riserve nivali. Infatti, qualche centrale idroelettrica è già stata spenta: sotto i 200 metri cubi al secondo non c’è tiraggio. Un problema particolarmente sentito dagli svizzeri che lesinano l’acqua del lago Maggiore, da cui dipende gran parte dell’irrigazione in Lombardia e, in parte, in Piemonte. Il caso del Verbano è paradigmatico del ginepraio in cui deve muoversi Berselli. «Ogni volta che chiediamo acqua, tutti i laghi cercano di resistere. Ma una cosa è trattare con le Regioni e un’altra avviare una trattativa tra ministeri degli Esteri, visto che la gestione delle acque del lago Maggiore è regolata da un trattato internazionale con un Paese che non è neppure membro dell’Unione europea». Ma l’acqua non era di tutti?

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