giovedì 23 aprile 2020
Quattro passi fra una piazza Navona deserta e un’immensa San Pietro: due giovani che si parlano a una finestra, i senza dimora e i soldati di guardia. Una sensazione di pace mai vista ma anche ...
Soltanto un rider sfreccia a pochi metri dal Colosseo

Soltanto un rider sfreccia a pochi metri dal Colosseo - Ansa

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C’è un silenzio, che da via Agonale senti già lo scrosciare delle fontane. Piazza Navona ti si spalanca davanti, deserta, più vasta di quanto la ricordi, in una mattina di sole incerto. Suonano, alle otto, campane vicine e lontane. Poi silenzio, ancora: rotto solo dalle risate irridenti dei gabbiani che volano bassi, della piazza padroni. Questa domenica della Divina Misericordia, 19 aprile, ti resterà indimenticabile nella memoria. Ma più di tutto te ne rimarrà il silenzio: l’incredibile, irreale silenzio di Roma. Una città immobile come dentro un incantesimo: dolorosa nelle sue strade vuote, ma splendida, più che mai. Verso il Pantheon, per i vicoli stretti, quasi in punta di piedi, non volendo svegliare la città che dorme. In giro, nessuno.

Così che istintivamente alzi gli occhi, e indugi su immagini dolci e scolorite di Madonne. Su lapidi con antichi anatemi per chi insozza le strade, o memorie di visitatori illustri. Al Pantheon, su quello che fu l’albergo del Montone, l’orma di Lodovico Ariosto: 'Indi col seno e con la falda piena/di speme, ma di pioggia molle e brutto/ la notte andai sin al Montone a cena'. Solo un soldato di guardia in piazza, un ragazzo.

«Scusi, ma un caffè non lo si trova da nessuna parte? », domandi speranzosa. Il soldato sorride come di un segreto, e indica un vicolo. Via dei Pastini, c’è un distributore automatico e una piccola coda di assonnati romani, mascherina e cane al guinzaglio. Grata, ti metti in fila. È, oggi, l’unico caffè di Roma. Verso Trevi incominci a ascoltarlo, il silenzio, e distingui il tubare dei piccioni, un merlo da un giardino segreto, e il gorgoglio delle fontanelle. Erano questi i suoni dell’Urbe, un tempo? Alla fontana più famosa della capitale, quella di Anita Eckberg, quella sempre assediata dai turisti, assolutamente nessuno. L’acqua scroscia abbondante e chiara, e rimani incantata a guardarla. Vorresti restarci per un’ora. Questa pace, questa bellezza t’innamorano. Ma le saracinesche calate e le finestre delle case, dietro cui immagini famiglie recluse e insofferenti, e forse liti, nella angustia delle stanze, ti riportano alla realtà. Non è incantesimo, è epidemia, è paura, e per qualcuno già sentore di fame.

Al Quirinale il silenzio si fa monumentale. Il tricolore pende, quasi immoto. A piazza della Pilotta ecco un uomo: un clochard che riordina il suo giaciglio di cartone. Ai Santissimi XII Apostoli, la Basilica aperta ti accoglie nella sua penombra materna. Una giovane donna prega, in ginocchio. Davanti a una Madonna splende una folla di candele, e ognuna, lo sai, è una preghiera. Piazza Venezia, sotto al balcone del Duce ora c’è un prato, e sulla strada autobus veloci e vuoti (pensi alla folla immensa del giugno 1940. Ti sbalordisce sempre come le pietre restano, e gli uomini passano e vanno).

All’Ara Coeli passi sotto alla Lupa, verso il Foro. Mancando i piedi delle colonne di turisti, l’erba rispunta fra il lastricato della Roma antica, e dalle crepe dei muri spuntano cespugli selvatici in fiore. Folate di profumo di gelsomino. I primi papaveri si affacciano nell’erba, sotto l’arco di Settimio Severo. Quale meravigliosa primavera ci stiamo perdendo. Dal cielo ronza un elicottero della Polizia, che gira e torna, insistente. Il rombo delle pale mette angoscia. Ricorda, per un istante, un altro elicottero, quello con cui Benedetto XVI lasciò San Pietro. Come allora, oggi, qualcosa di mai visto a Roma, qualcosa che inquieta, quasi temessi di sentirci dentro un segno di fine dei tempi. Ma a via del Corso qualche labrador affannato al guinzaglio – i cani sono alibi a quattro zampe, costretti dai padroni alla terza passeggiata del mattino – ti strappa un sorriso. Come le rose che grondano generose da un balcone di un vicolo, o il gatto che da un davanzale ti spia, indolente. E ti accompagna sempre, fedele, il chiocciare delle piccole fontane.


Il lockdown imposto per arginare la diffusione del coronavirus trasforma la 'cartolina' del centro, ma non la sua bellezza. Anche la periferia è solitudine, reclusione e paura

A via delle Vigne un giovane carabiniere sotto a un portone parla con una ragazza bruna affacciata a una finestra, al primo piano. E da come lei sorride capisci che non stanno parlando di Covid, ma di altro. Lui è in servizio, ma lei non può scendere, e gli parla dalla finestra, come ai tempi in cui le figlie non uscivano, senza il permesso della mamma. Senti affiorare un altro sorriso: ecco, in tanta paura, qualcosa che tenace rinasce, e vuole ricominciare. Trinità dei Monti, candida e deserta, è sogno e sgomento assieme. Dove sono, dove siamo tutti, e quando torneremo? Gucci, Prada, Bulgari, fila di saracinesche calate o vetrine vuote. Solo i tuoi passi per via del Babuino, fino al grande catino di piazza del Popolo.

Sotto a Ponte Regina Margherita il Tevere è color del fango, fermo - sembra il sangue lento nel cuore di Roma. Dal fondo di via della Conciliazione lo sbarramento delle camionette dell’Esercito davanti a San Pietro risveglia ancora angoscia: c’è la guerra? Ma dov’è il nemico? È invisibile, è fra noi, è nel nostro fiato. Al pomeriggio il cielo si fa scuro, e questa città fatta per il sole si incupisce. Sali su un autobus, non sai esattamente dove va, ma verso fuori. E quanto corre e sobbalza sulle buche, senza rallentare alle fermate dove nessuno lo aspetta. Traversa periferie uguali, dignitose o scalcinate. Magliana, leggi su un cartello. Anche qui, nessuno. I romani, non lo immaginavi, ubbidisco- no scrupolosamente al coprifuoco. E i cassonetti, strano, per la prima volta li vedi puliti. Ma chissà, nei bilocali stretti, i pianti dei bambini piccoli, e l’impazienza, e la sfiducia che tracima.

Trinità dei Monti deserta,

Trinità dei Monti deserta, - Ansa

Questa periferia dista chilometri dall’incantesimo di Trevi vuota. È solitudine, reclusione, paura. Anche Campo dei Fiori senza nemmeno un banco di frutta o di verdura, sotto al cielo fattosi opaco, stringe il cuore. A santa Maria in Trastevere però alle sei di sera noti un silenzioso convergere di fedeli. Soli, si inginocchiano e pregano, ciascuno per suo conto. Ma non in pochi: e ti pare di sentire sospesa nelle navate la domanda di una città che aspetta di svegliarsi, e tornare a vivere. Passi due controlli di Polizia prima di raggiungere piazza San Pietro, immensa, muta. Sotto al Colonnato si allineano le tende dei clochard. Qui e là una scodella, scarpe consunte, piedi callosi di vecchi addormentati.

Quanti sono, gli abbandonati. E quanti saranno, fra qualche mese, i nuovi poveri? A Borgo Pio mentre si fa sera nessun aroma di pizza, di arrosto, di pasta alla gricia. Serrate, tutte le trattorie dei pellegrini. Ed anche questo è profumo di vita, che manca. Ma ti restano in mente quei piedi stanchi di clochard, a San Pietro. Sono identici ai piedi dei pellegrini in ginocchio davanti alla Madonna di Caravaggio, alla chiesa di Sant’Agostino. Ti ricordano che siamo, benché dimentichi, pellegrini, quaggiù, tutti. Che questa meravigliosa città in 2.773 anni compiuti ieri, 21 aprile, ha conosciuto cento ben più drammatiche pestilenze, e ogni volta è risorta. Già, non vista, ricomincia: come in quei due ragazzi a via delle Vigne, lui in divisa, lei affacciata a una finestra, sorridente. Nel gran silenzio di Roma si prepara, e preme, vita, ancora.

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