domenica 26 giugno 2022
Di Donna, presidente dei vescovi campani: i ragazzi conoscono i nomi dei boss e non quello di don Diana, bisogna riprendere in mano il documento di 40 anni fa "Per amore del mio popolo non tacerò"
Un corteo anticamorra

Un corteo anticamorra - Fotogramma

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Quaranta anni fa, il 29 giugno 1982, venne presentato il documento dei vescovi campani 'Per amore del mio popolo non tacerò'. Il primo a parlare esplicitamente della camorra, a denunciare violenze e collusioni, e a fare precise proposte. «È importante riprenderlo oggi perché il problema della camorra c’è ancora. Ci sono stati tanti che si sono impegnati, però la camorra è ancora attuale, così come le indicazioni di quel documento. Per questo intendiamo rilanciarlo. Ricordandolo in occasione del quarantesimo anniversario e a novembre con un incontro di confronto e verifica», spiega monsignor Antonio Di Donna, vescovo di Acerra e presidente della Conferenza episcopale campana.

Perché è importante riflettere su quel documento?

In primo luogo per onorare quella Chiesa che ebbe il coraggio, per la prima volta, di affrontare il fenomeno della camorra. L’impegno della Caritas regionale, guidata da don Elvio Damoli, che quell’anno promosse un seminario proprio su questo tema, dal quale i vescovi campani presero l’idea del documento che fu redatto soprattutto da monsignor Antonio Riboldi, vescovo di Acerra, e dal vescovo di Nola, monsignor Guerino Grimaldi. Fu un momento importante di fermento della Chiesa campana, di presa di coscienza, chiamando la camorra col suo nome. Dando anche indicazioni pastorali, e facendo appello ai politici e alle comunità cristiane. Ricordo poi che in quello stesso anno, a novembre, ci fu la marcia dei diecimila contro la camorra proprio ad Ottaviano, città di Raffaele Cutolo. Don Riboldi interpretò quell’evento come una nuova Resistenza: «Questo è il nostro 25 aprile, qui il fascismo si chiama camorra».

Un documento che ispirò poi don Peppe Diana, il parroco di Casal di Principe ucciso dalla camorra il 19 marzo 1994.

Esatto. Don Diana e gli altri parroci di Casal di Principe nel Natale 1991 distribuirono un documento che, sia nel titolo che nel contenuto, si ispirava a quello dei vescovi. In realtà tutta la vita pastorale di don Peppe, per il quale auspico l’apertura della causa di beatificazione, fu ispirata da quelle importanti riflessioni.

Cosa c’era di importante in questo senso?

La denuncia del rapporto tra camorra e religiosità, una relazione che viene sempre prepotentemente a galla. E la mafia la ostenta.

La Chiesa in questi 40 anni ha seguito quelle indicazioni?

Manca ancora un inserimento più massiccio della Dottrina sociale della Chiesa nella catechesi, nell’evangelizzazione. La Chiesa non ha taciuto in questi anni, ricordo il documento della Cei del 1991 'Educare alla legalità'. Però non ci siamo ancora, perché queste indicazioni non vengono tradotte poi in cammini ordinari delle nostre comunità. Questo è il nostro esame di coscienza che però dovrebbero fare tutti, le istituzioni, la politica, la magistratura.

Cosa in questo momento la preoccupa di più? La violenza? Le collusioni con la politica e l’economia?

La camorra oggi, tranne certa criminalità minorile, raramente è una camorra feroce, che uccide. Però certamente è una camorra che è entrata tra i colletti bianchi, nella finanza. Ma il problema è soprattutto educativo, di una povertà educativa. Non riusciamo ancora a incidere sui modelli. Abbiamo ancora dei ragazzi dei quartieri popolari, che pure vanno a scuola, che conoscono bene i nomi dei boss e non quello di don Peppe Diana. Ai loro occhi sono ancora dei miti. E allora questo per noi è un fallimento.

Come mai?

L’educazione alla giustizia è patrimonio di élite ecclesiali. Nella pastorale ordinaria è raro, pur con le debite eccezioni, che all’interno delle comunità rifluiscono i problemi del territorio. Come è raro che in un’omelia o nel sacramento della riconciliazione trovi posto l’interrogativo circa la serietà e il rigore nell’adempimento dei propri doveri professionali. Molti non avvertono più la contraddizione tra la loro adesione alla fede e i peccati contro la giustizia: l’evasione fiscale, la facile corruzione, le raccomandazioni, l’assenza dello spirito di servizio negli operatori sociali, l’indifferenza verso il bene comune. E questo è terreno fertile per la camorra.

Il documento. Quella denuncia lanciata 40 anni fa

«La camorra, oggi, è una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella nostra società campana». Così il 29 giugno 1982 denunciava la Conferenza episcopale campana nel documento 'Per amore del mio popolo non tacerò'. Era la prima volta che si parlava esplicitamente della camorra.

«Noi, Pastori delle Chiese della Campania, che abbiamo avuto la missione di annunciare il Vangelo liberatore di Cristo – scrivevano i vescovi –, non possiamo tacere di fronte al dilagare di tanto male: Per amore del mio popolo, non tacerò (cfr. Is 62,l). Perciò, partecipi del dolore delle vittime palesi e occulte della violenza, mentre rinnoviamo un accorato invito a capi e gregari della camorra affinché si convertano, proponiamo una attenta riflessione a tutte le comunità cristiane, alle famiglie, agli educatori, ai giovani, alle forze politiche e a tutti gli uomini di buona volontà».

Parole molto chiare come «il sospetto, non sempre infondato, di una complicità con la camorra da parte di uomini politici che, in cambio del sostegno elettorale, o addirittura per scopi comuni, assicurano copertura e favori; la mancanza di chiarezza nel mercato del lavoro, per cui, non di rado, trovare una occupazione è più una operazione di tipo camorristico- clientelare che il perseguimento di un diritto fondato sulla legge del collocamento; la carenza o l’insufficienza, anche nell’azione pastorale, di una vera educazione sociale, quasi che si possa formare un cristiano maturo senza formare l’uomo e il cittadino maturo».

Non solo denuncia, ma chiare proposte a partire dall’affermazione sulla «contrapposizione stridente che esiste tra i falsi messaggi della camorra e il messaggio di Gesù Cristo». Mentre la camorra «ha persino inserito i suoi tentacoli nella vita sacramentale attraverso la distorsione della figura del padrino di battesimo, di cresima e di matrimonio, legando a sé creature ignare con le loro famiglie e coppie di sposi, più o meno conniventi». E questa è «sacrilega deformazione culturale e sacramentale».

Molte le indicazioni dei vescovi. «Demitizzare e isolare la camorra», «educare incessantemente alla verità e alla giustizia, nella vita personale e comunitaria », «predicare il comandamento del perdono, che si contrappone alla logica della vendetta». Alle forze politiche si chiedeva: «La vostra fedeltà al ruolo che esercitate e la vostra saggezza vi ispirino una politica di risanamento effettivo della Campania, in cui trovino priorità le necessità ed i diritti fondamentali dell’uomo». Alle comunità cristiane: «Il fenomeno della camorra ci interroga in maniera perentoria sul nostro modo di essere Chiesa; ci sfida ad essere una vera contrapposizione, un’autentica proposta di civiltà, ad essere non solo credenti, ma credibili».

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