venerdì 23 agosto 2013
​Ricominciare a cinquant'anni e oltre, causa crisi. Sono tanti gli italiani nelle scuole d’inglese per stranieri «A 63 anni ho venduto la mia lavanderia a Bari e qui ho aperto una “laundry”».
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La sede del “Callan Istitute”, nel cuore di Oxford Street, è un dedalo di corridoi e di aulette distribuito su cinque piani di un vecchio edificio che quasi sfigura tra i palazzoni dei mega centri commerciali invasi ogni giorno dell’anno, 24 ore su 24, da un esercito multicolore di turisti. Il “Callan”, come le altre decine di scuole di inglese che s’affacciano su questo girone dantesco dello shopping elevato a idolatria, spropositato e ridondante per dimensioni, traffico e varietà multirazziale, sono piccole oasi di tradizione britannica tra tante confuse suggestioni senza confini e senza identità. La prima rampa dello scalone, direttamente collegato a un piccolo atrio aperto su Oxford Street, sembra confermare le attese. Velluto rosso e un gigantesco portiere di colore in divisa appaiono il preludio a spazi austeri e silenziosi, secondo i più abusati cliché dell’immaginario made in Egland. Ma basta salire le rampe – agli studenti l’ascensore è vietato – e affacciarsi sulla porta di un’aula, perché tutto si dissolva. Gli allievi di questa celebrata scuola di lingua, che è un tassello non marginale della storia stessa di Londra, non sono ragazzini alle prese con la classica vacanza-studio, ma persone di mezza età, con lo stesso look dei turisti che strusciano davanti alle vetrine dei negozi. E con lo stesso sguardo a metà strada tra l’attonito e lo smarrito. La maggior parte parla in italiano, ma con tutte le specificità e le bellezze delle nostre parlate regionali. Una signora che non si vergogna di rivelare ai “compagni di corso” i suoi 63 anni, spiega in un barese stretto di aver venduto il mese scorso una lavanderia nel cuore del capoluogo pugliese e di averne acquistata un’altra qui a Londra, zona Finsbury Park, a un costo decisamente inferiore a quanto ricavato.«Noi avevamo una tradizione a Bari. Lavanderia da tre generazioni. Ma adesso non riuscivamo più a tirare avanti. Troppe tasse. E sempre meno clienti. Come potevo assicurare il futuro a mio figlio? Così, abbiamo “arrischiato”. Vendiamo qui e comperiamo di là». E mentre le vocali si allungano in modo inversamente proporzionale alle consonanti, rendendo sempre meno comprensibili i concetti, spiega che il vero problema a questo punto è capire cosa diavolo dicono le persone che s’affacciano alla sua nuova “laundry” londinese. Da qui la necessità di frequentare un corso accelerato per tentare una congiunzione linguisticamente quasi impossibile: barese antico e inglese moderno. Lo stesso problema di Augusto, che però arriva dal cuore delle Marche, dintorni di Macerata, dove da vent’anni mandava avanti un ristorantino conosciuto e ben frequentato. Ma anche lì la scure della crisi ha tagliato clientela e margini di guadagno. E così, anche in questo caso, l’unica soluzione possibile è stato il grande salto. Alle soglie dei 50 anni, ha lasciato la moglie e una figlia ventenne nelle Marche a gestire «fino a quando è possibile» il ristorante, e lui «chef capo-partita», con esperienza in locali a tre stelle anche sulla Costa Azzurra, ha ricominciato da un fast-food vietnamita, zona di King Cross. «Ma adesso imparo la lingua, vendo il mio locale in Italia, acquisto questa schifezza dove ora si friggono solo ali e cosce di pollo e lo trasformo in un ristorantino alla marchigiana… magari il prossimo anno. O al massimo entro il 2015». Storie che s’intrecciano, sogni che vagano con la forza di chi non vuole arrendersi all’evidenza e ai contraccolpi della crisi. In questa piccola aula del “Callan Istitute”, in un grigio pomeriggio dell’agosto londinese, c’è un’Italia che trova la forza di andare controcorrente. Che, dopo aver stretto i denti e costruito benessere per sé per gli altri a casa propria, adesso è stata costretta a trasferirsi altrove, per vedere se è possibile ripetere il miracolo. C’è ancora da stringere i denti, c’è da replicare ancora una volta quello che da generazioni l’Italia migliore riesce a fare in tutto il mondo. Ricominciare. È questa la parola d’ordine che si ripetono tacitamente questi allievi incanutiti – una decina di italiani con quattro spagnoli, due brasiliani e un’ecuadoregna – mentre ascoltano attenti le cadenze londinesi che un maestro dell’età dei loro figli, vorrebbe far loro imparare. Ricominciare. Come immagina Gaetano, 47 anni, siciliano, che deve al più presto «capire qualcosa di questo inglese» perché sta per essere assunto da un’azienda di costruzioni. Aveva anche lui una piccola impresa edile nel Palermitano ma le opportunità di lavoro stavano svanendo perché «da noi nessuno mette più a posto casa». Che fare? Ha scritto a un amico che già da un decennio si è trasferito in Inghilterra e, avuta conferma che un tentativo sarebbe stato possibile, ha trovato il coraggio di fare il salto. Dalla Sicilia a Londra. «Mi hanno detto che un muratore bravo è apprezzato ovunque, ma ho visto che al cantiere, se non capisco quello che dicono, mi guardano strano. E quindi voglio imparà in fretta». La crisi corre. Loro vogliono andare più veloce. Per un lavoro e per una nuova vita si può tornare sui banchi di scuola anche a cinquat’anni.
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