venerdì 8 aprile 2016
«Io, ex investigatore, mai invitato in tv  Al figlio di Riina consentito di lanciare messaggi»
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«No, Bruno Vespa non mi ha mai invitato a presentare il mio libro. Ma non importa. Io preferisco andare nelle scuole a raccontare di chi ha combattuto la mafia e delle tante vittime. Molti erano miei amici». A parlare è il generale dei Carabinieri, Angiolo Pellegrini, tra i più stretti collaboratori di Giovanni Falcone. Uno che Totò Riina lo conosce molto bene. «Quando ho visto il figlio parlare di lui solo come un padre ho pensato ai tanti padri che non ci sono più e ai tanti giovani che non sono potuti diventare padri, perché uccisi o fatti uccidere da Riina». Pellegrini dal 1981 al 1985 ha comandato la Sezione anticrimine di Palermo. Era un giovane capitano, investigatore di razza, soprannominato 'Billy the Kid'. Poi capo centro della Dia a Reggio Calabria, Roma e Palermo. Fu lui coi suoi uomini a preparare il famoso 'Rapporto dei 162' che poi sfociò nel maxi-processo a 'cosa nostra'. E fu sempre lui ad andare più volte in Brasile per raccogliere le prime rivelazioni di Tommaso Buscetta e poi a riportarlo in Italia con Gianni De Gennaro. Oggi a 74 anni gira per l’Italia («Sono appena tornato dalla Puglia», ci dice) per presentare il suo libro «Noi, gli uomini di Falcone. La guerra che ci impedirono di vincere» (Sperling& Kupfer) scritto con Francesco Condolici. Che impressione le ha fatto l’intervista? Si è arrabbiato? Io, come quando indagavo, non mi faccio impressionare, ma sicuramente non mi è piaciuta. Sarebbe stato meglio spegnere la tv. Si può intervistare un mafioso, ma bisogna vedere come si fa l’intervista. Vespa gli ha consentito di mandare messaggi, come quando ha provato a delegittimare i collaboratori di giustizia. Ma ripeto, non mi è piaciuto come ha parlato del padre. Perché? Mentre vedevo quel giovanotto parlare in quel modo del padre, ho pensato a quanta gente ho visto morire: Cassarà, Montana, D’Aleo... È vero che le colpe dei padri non devono ricadere sui figli, ma il padre di Salvuccio Riina di colpe ne ha davvero tante. Lei che lo ha indagato e inseguito per anni come definisce allora Totò Riina? Uno stratega militare e un sanguinario. Ma con una mente superiore perché altrimenti non avrebbe fatto quello che ha purtroppo realizzato. E il figlio chi è? Lo conosceva? No, perché quando ero in Sicilia era piccolo. I vecchi mafiosi dicevano che a me bastava uno sguardo per capirli. Il suo sguardo non mi piace. Il ragazzo è scaltro, freddo. È uno tosto. Ci vedo il padre. La mentalità non è cambiata. Non ho visto in lui nessuna dissociazione. Anzi mi preoccupano quei messaggi che ha lanciato. Se saranno recepiti sarà molto pericoloso. 'Cosa nostra' quindi non è sconfitta? No. 'Cosa nostra' esiste ancora. L’arresto dei capi è stato vincere delle battaglie importantissime. Ma la guerra non l’abbiamo ancora vinta. Soprattutto quella contro la mentalità mafiosa. Lei ci prova andando nelle scuole? Parlo del libro ma porto anche le foto delle vittime, del maxi-processo nell’aula bunker di Palermo. I giovani devono conoscere per cambiare. L’ho fatto anche in una scuola di Corleone, dove li ho invitati a riappropriarsi del nome 'corleonesi' che non può essere sinonimo di mafia. E la televisione, al di là dell’episodio, aiuta, soprattutto i giovani, a capire cosa sono le mafie? La televisione non fa un buon servizio. Soprattutto con le fiction dove i mafiosi appaiono rispettabili e onnipotenti. Per questo sono importanti i libri... Certo. Ma non quello del figlio di Riina.
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